È uno dei firmatari della lettera al precedente ministro dell’Università, nella quale si disconosceva qualunque valore scientifico alla conferenza sui cambiamenti climatici organizzata nel settembre scorso dall’allora ministro dell’ambiente Pecoraro Scanio. È Alfonso Sutera, ordinario di Fisica Sperimentale e Fisica dell’Ambiente all’Università di Roma La Sapienza, che ancora oggi, ricordando quell’episodio, parla di una conferenza impostata “a partire da preconcetti”.
La lunga esperienza di insegnamento nelle università americane lo rende più sensibile alle vicende internazionali e più attento a percepire i molti risvolti del dibattito ambientale.
Interpellato per commentare i risultati del G8 in merito alle politiche climatiche, non nasconde le sue perplessità circa la decisioni di tagliare fino al 50% le emissioni di gas serra entro il 2050.



Che validità può avere il  prendere decisioni ambientali su un arco temporale così lungo?

I cambiamenti climatici osservati sono esito di una storia complessa. In particolare, l’aumento di temperatura registrato negli ultimi cento anni ha un andamento non lineare, è frutto di alti e bassi che però si possono interpolare su una retta fino a ipotizzare un trend che va nel senso di un aumento di 3-4 decimi di grado.  Ora, se questo è dovuto all’aumento della CO2 in atmosfera, quindi – semplificando un po’- dei gas che incidono sull’effetto serra, allora era inutile persino il protocollo di Kyoto: infatti ormai siamo a 380 parti per milione di CO2 e l’effetto negativo si è già verificato; a questo punto, aumentare o diminuire questa quantità oppure stabilizzarla non annullerebbe la sua incidenza sul riscaldamento globale del pianeta. Questo  ormai c’è e ce lo dobbiamo tenere, perché il tempo di persistenza della CO2 in atmosfera è al di sopra dei cento anni, ha un ordine di grandezza delle centinaia di anni.
Se la causa del global warming è solo l’attività umana, quindi le emissioni di gas serra, bisognava intervenire prima ancora di Kyoto e attuare politiche di contenimento più severe. Sono in molti a riconoscere che il trend osservato è dovuto non solo all’aumento della CO2 ma anche all’effetto delle possibili retroazioni che tale aumento  ha sull’intero ecosistema. Si tratta ora di capire se il sistema è vicino o meno a quella che noi fisici chiamiamo “criticità”, cioè a quella condizione nella quale basta un ulteriore piccolo aumento di temperatura per provocare un cambiamento dello stato fisico (si pensi ai ghiacciai artici o alla temperatura della corrente del Golfo). Se siamo veramente in un punto critico, allora i limiti fissati dal protocollo di Kyoto avevano almeno il vantaggio di impedire il superamento della criticità; e se è così, il rinvio al 2050 potrebbe avere effetti devastanti.
Però avrà notato che tutto questo ragionamento si basa su due assunti: il primo è che solo la CO2 fa aumentare la temperatura, e ciò non si può dimostrare; il secondo è che siamo vicini a situazioni di criticità, e anche questo è indimostrabile.



Stupisce però che si dia per certo che il riscaldamento è dovuto a effetti antropici …

Io non sono disposto a concedere, sulla base delle mie conoscenze, che solo l’aumento della CO2 abbia causato tutto l’aumento di temperatura osservato. Ovviamente non sono così sciocco da pensare che non abbia avuto qualche parte in questo processo; ma è una parte che non si può quantificare. L’Ipcc afferma che il 50% è dovuto a cause antropiche; e se io dico che la quota è il 30% le può sembrare una notevole differenza. Ma se consideriamo non la percentuale ma i valori assoluti, l’Ipcc parla di 6 decimi di grado ogni cento anni e io dico 5,2: cioè una differenza irrilevante . Stiamo quindi discutendo sulla seconda cifra decimale. Certo è una discussione di grande rilevanza; ma tra le diverse posizioni scientifiche non c’è poi quella distanza e quell’alternativa netta.



Allora non è necessario intervenire?

Non voglio dire questo. Sto dicendo che ci sono molti ragionamenti ipotetici, molti “se”: o uno li accetta come tali o mi deve dire a quali altre fonti di dati si riferisce; ma non ne conosco altri scientificamente significativi. Bisogna avere il coraggio di accettare quei “se”. E bisogna anche ammettere la possibilità che ci siano dei cambiamenti climatici che non riusciamo neppure a prevedere.

Si parla molto del ruolo dei Paesi emergenti, di grandi popolazioni come quelle di Cina e India dove però i sistemi di controllo ambientale sono decisamente inferiori ai nostri. Lei ritiene che il loro contributo al degrado planetario sia importante  e in tal caso è pensabile che si possano adeguare a criteri di sviluppo basati sulla sostenibilità?

Certo le dimensioni di quei popoli sono impressionanti. Si può ben immaginare che se dovessero utilizzare l’energia con lo stesso ritmo con cui la consumiamo noi, provocherebbero un incremento delle emissioni comparabile a quello di tutta l’Europa  più gli Stati Uniti; fatti i conti, il risultato sarebbe di circa un 30% in più di emissioni globali.
C’è però da aggiungere che la tecnologia cambia e si può auspicare che il loro sviluppo avvenga con l’impiego di tecnologie ambientalmente compatibili.  Ma è difficile prevedere quello che faranno. Sicuramente non si può impedire a questi Paesi di svilupparsi …

a cura di Mario Gargantini