Senatore, lei è stato relatore di minoranza, al Senato, del Dpef: nella sua relazione ha parlato di un documento fatto di scelte rinunciatarie. Cosa intende dire?
La strategia contenuta nel documento di programmazione economica e finanziaria immagina di poter risolvere il problema che è oggi davanti a noi, quello appunto di uno shock da inflazione importata, ipotizzando un contenimento ulteriore dei salari reali nei prossimi anni. Questa ipotesi può essere anche condivisa, ma non è facile da fare, perché veniamo da 15 anni in cui i salari reali sono rimasti fermi. Quindi sarebbe stato coraggioso da parte del governo prevedere tagli alla spesa pubblica, ulteriori rispetto a quelli già previsti, per poter simultaneamente tenere basso l’andamento del costo del lavoro. Al tempo stesso bisognava dare alle retribuzioni al netto di imposta quella crescita di cui il mondo del lavoro italiano credo abbia bisogno, appunto dopo 15 anni di moderazione salariale. Dall’altro lato è chiaro che l’altra strada da seguire è una politica di interventi su quei nodi strutturali che rendono ancora debole la crescita della produttività italiana. Da questo punto di vista quando io guardo agli interventi previsti nella manovra, dalla liberalizzazione dei servizi pubblici a quello che si prevede in tema di università, a quello che si prevede a proposito del Mezzogiorno, vedo tutte riforme a metà. E ho cercato di spiegare ai colleghi e senatori che le riforme a metà non è che producono risultati a metà, non producono nessun risultato.
In particolare lei ha parlato anche di una mancanza di coraggio, da parte del governo, sotto il profilo dei tagli: che cosa è mancato secondo lei?
Io credo che il problema principale sia il fatto che tagli lineari, come si immagina nel documento di programmazione, solitamente non portano da nessuna parte. Abbiamo già avuto ampie evidenze di questo. Sarebbe stato più interessante e anche più utile adottare invece il sistema del benchmarking generalizzato a tutta la pubblica amministrazione. Per intenderci: se la media delle prefetture è quella di coprire il bacino di “x” abitanti, tutte le prefetture che coprono un bacino di abitanti inferiore si accorpano. Questa è la strada più semplice e molto più immediata. Molti di noi sanno che se questo metodo fosse applicato alla sanità, per fare solo un esempio, l’entità dei risparmi potrebbe essere più significativa.
Lei citava prima la questione dei salari. Ci spieghi nel dettaglio le possibili soluzioni da mettere in campo secondo lei per ridare potere ai salari.
Ripeto che a mio avviso il costo del lavoro deve crescere poco, altrimenti ci avvitiamo nuovamente in una spirale inflazionistica da cui usciamo stritolati. Però il fatto che il costo del lavoro cresca poco non significa che non si possano far crescere le retribuzioni al netto dell’imposta. Come? Attraverso un programma di compensazione sostanziale, controbilanciato naturalmente da tagli di spesa.
Ci sono nel Dpef due proposte di cui si è parlato molto, per il loro particolare impatto dal punto di vista comunicativo: la “Card alimentare” e la “Robin Tax”. Qual è la sua opinione su queste due misure?
La card alimentare, per quel che mi riguarda, contiene una componente paternalistica che io trovo francamente insopportabile. Io credo che la gente sia in grado di sapere che cosa serve: ad un pensionato che vive in un area rurale probabilmente non manca da mangiare, ma manca quello che serve per andare a trovare il figlio in città. Quindi in questo caso la carta alimentare non serve a molto. Penso che ci saranno veramente problemi di applicazione molto seri, perché è una questione sotto il profilo burocratico molto pesante, di cui si sono sottovalutate tutte le implicazioni.
Sulla Robin Tax francamente credo che petrolieri, assicuratori e banchieri saranno contenti di come sia andata a finire la storia: sono quelle cose in cui si fa finta di prendere qualcosa a qualcuno, ma in realtà non lo si tocca nei suoi interessi veri. I profitti che vengono fatti in settori bancari e assicurativi dipendono in larghissima misura dalle posizioni oligopolistiche. Un governo serio avrebbe affrontato il tema della concorrenza e non si sarebbe limitato a portare via pochi spiccioli.
Un’ultima domanda di carattere politico: lei ha detto che questo governo è molto più debole di quello che sembra. Perché?
È molto semplice: il governo si è messo in una condizione tale per cui lo schema previsto nel decreto di programmazione economica francamente è molto difficile da attuare. Il problema fondamentale, lo ripeto, è che veniamo da 15 anni di compressione dei salari. Di fronte a questo le possibilità sono due: o il governo si prepara ad eliminare gli squilibri di bilancio, e questo non credo che accadrà perché ritengo che il ministro dell’Economia voglia tenere ferme le redini della finanza pubblica; oppure si prepara a sopportare un problema sociale molto significativo che implica un forte problema politico. Io ritengo infatti che all’interno della maggioranza non tutti siano pronti a reggere una situazione difficile sotto il profilo sociale. In questo senso la maggioranza è debole. O meglio: l’assenza, spesso e volentieri, dell’opposizione nasconde le debolezze della maggioranza.