Barack Obama è un po’ come il mondo di Pirandello. Un viso, nessuna certezza e centomila impressioni. E’ l’uomo delle ambiguità, delle posizioni sfumate, talvolta così lontane da sfidare il principio di non contraddizione aristotelico. Perché Obama è stato contro l’aborto, pur essendo a favore. E’ a favore della globalizzazione ma così preoccupato dei salari e dei posti di lavoro delle tute blu dell’Ohio da giurare che lui il Nafta (l’accordo di libero scambio del 1994 con Messico e Canada) non lo avrebbe mai firmato. Era contro il piano di rinforzi di Bush per l’Iraq. Ma è anche a favore del generale Petraeus che nelle prossime settimane dovrebbe accoglierlo a Baghdad per mostrargli che le cose laggiù vanno un pochino meglio. Cambiare idea non è reato. Figurarsi in politica. E tutto cade se il gradino più alto del podio è la Casa Bianca.
Eppure Obama, di cui sappiamo tutto (e il suo contrario), resta per molti tratti indecifrabile. Perché il senatore dell’Illinois, classe 1961, è il figlio di un’America che spesso ignoriamo. Quando iniziò la sua corsa per ottenere la nomination democratica dovette prima conquistare i neri. La “sua” gente lo guardava con sospetto e scetticismo. Per qualcuno Obama non è abbastanza nero, non ha avuto antenati schiavi. E’ cresciuto fra l’Indonesia e le Hawaii e ha studiato ad Harvard. Per altri era troppo di colore perché l’elite bianca e l’establishment democratica potessero puntare su di lui.
Obama ha smentito gli scettici e convinto i sospettosi. A garantire per i suoi geni neri è la moglie Michelle, nata nel ghetto nero di Chicago. Classico esempio della donna che ce l’ha fatta da sola. Studio, abnegazione e una carriera da avvocato che nel 2006 l’ha portata a guadagnare molto di più di Obama. A differenza di altri leader neri del passato che hanno costruito la loro piattaforma politica sul vittimismo e il risentimento degli afroamericani, Barack invece ha un messaggio inclusivo. Non parla solo ai neri, non parla solo alle minoranze. Parla agli americani. Certo dietro la coltre della retorica si nasconde anche qualche neo, qualche radicalità sopita. Ad esempio nel 1995 Obama era con Louis Farrakhan, il padre della Nazione dell’islam, alla Marcia del milione a Washington. E, se vogliamo, pure l’abbraccio con il reverendo Jeremiah Wright, l’uomo che quando aveva 20 anni lo accolse nella sua Chiesa di Chicago facendogli scoprire la fede e il Vangelo, non è privo di ombre vista la ferocia di talune espressioni anti-americane del pastore della United Trinity Church di Chicago.
I conservatori non vedono l’ora di inchiodarlo per qualche dichiarazione o comportamento del passato un po’ sopra le righe. Un’accusa per scarso patriottismo sarebbe una manna. Pur con qualche tentennamento, la campagna elettorale finora ci ha mostrato il volto buono del candidato democratico.
Hillary Clinton si è lamentata che il rivale non fosse stato passato ai raggi X dai media. La signora aveva ben ragione. Ma è vero che anche quando la curiosità della stampa è andata oltre i vestiti da appena 79 dollari della moglie Michelle, della passione per il calcio e per il basket del senatore dell’Illinois, scandali non ne sono usciti. Almeno nulla di strano. Se non un tasso di interesse del mutuo trentennale della abitazione di Chicago leggermente inferiore alla media; o l’amicizia con un finanziere discusso, tale Tony Rezko, di Chicago; o ancora la frequentazione a fine anni ’90 con Bill Ayers, un esponente del gruppo radicale degli anni ’60, Weather Underground, al quale sono imputati azioni dimostrative violente e anche degli omicidi.
Ma più che il rapper ribelle dei ghetti neri, Barack è la rockstar che riempie gli stadi, che esalta la gente con il suo messaggio di unità e di cambiamento. L’uomo che invita all’audacia della speranza. E se c’è una dote che nessuno può negargli è l’essere riuscito a incendiare – e in senso buono – l’America. A trascinarla, con l’aiuto di Hillary Clinton, nel mondo della politica. A interessarsi. Mai come nel 2008 gli elettori democratici hanno preso d’assalto i seggi elettorali; mai come quest’anno la forza della sinistra Usa è parsa così imponente. Anche se forse non incanalata sempre nei giusti binari. Se Obama ha i numeri giusti per non far deragliare il sogno resta però un interrogativo. Abilissimo a ricorrere alla retorica, a modulare la voce, a commuovere il Paese quando parla di razzismo, di patriottismo e di religiosità, è più confuso quando c’è da votare una legge al Senato. O ad assumere posizioni su tasse, politica estera e questioni sociali. Lì sembra più un democratico vecchio stampo, un liberal “tassa e spendi”. Sull’aborto tardivo (ai tempi era ancora solo un senatore in Illinois) fu tra i pochi a criticare il bando voluto da Bush e sostenuto anche da impenitenti femministe come Barbara Boxer e Hillary Clinton. La sua politica economica – per i detrattori – fa impallidire anche il New Deal quanto a interventismo federale. La politica estera è confusa e in perenne cerca di bussola. Che volto mostrare all’Iran? Quello della mano tesa senza precondizioni o la continuità?
Eppure Obama, nella sua schizofrenica politica, è straordinariamente capace di mescolare visioni e ideali andando oltre la divisione liberal-conservatore. Basterà per spingere gli americani a voltare pagina?