Dopo un’attesa di quasi sette anni, sembra finalmente concretizzarsi la possibilità di una conclusione positiva del federalizing process impostato dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, ancora mancante di quello snodo fondamentale senza il quale il sistema istituzionale italiano non può davvero effettuare quel salto di qualità che invece altre realtà europee (ad esempio la Spagna) hanno compiuto da tempo. Si tratta dell’attuazione del federalismo fiscale, introdotto proprio nel 2001 all’art. 119 Cost. dopo una fase preparatoria, cominciata nella seconda metà degli anni Novanta, che aveva già iniziato a valorizzare, seppur in modo timido e altalenante, l’autonomia finanziaria regionale e locale.



La posta in gioco nell’attuazione del federalismo fiscale è davvero alta: attuare il federalismo fiscale non significa un’operazione di cosmesi legislativa, significa invece realizzare la vera riforma dello Stato italiano, che ancora langue in un assetto istituzionale incompiuto che deprime le potenzialità del Paese. In questa incompiutezza istituzionale anche la migliore intenzione politica fatica a superare gli scogli dove si annida la rendita, la deresponsabilizzazione, lo spreco delle risorse e la conseguente sottrazione di queste a impieghi necessari ad uscire dalle secche della crisi.



Sul tema si sta avviando un opportuno approfondimento delle implicazioni e dei modelli del federalismo fiscale, come dimostrano le iniziative del Pd, le dichiarazioni di alcuni rappresentati del Governo, i documenti approvati dalla Conferenza delle Regioni, ecc.
È opportuno che questo approfondimento si svolga, fino a un confronto serrato; deve però perdere le connotazioni ideologiche, perché è votato a rispondere a una questione troppo seria: la fondamentale esigenza di riscrivere il patto fiscale in modo da renderlo più conforme alle aspettative dei cittadini. Il cittadino, come diceva Einaudi, «vuole sapere perché paga le imposte». La riforma del federalismo fiscale è oggi essenziale per rendere trasparente la risposta a questo “perché”.



Ma per ottenere questo risultato ci sono quindi alcuni punti fermi: in primis quello della responsabilità. Su molti aspetti attuativi si potrà discutere, anche sulle misure delle differenze, ma su questo no. Altrimenti prevarrà l’egualitarismo, a danno di tutto il Paese e della stessa eguaglianza. Giustamente, in alcuni ipotesi attuative si prevede, ad esempio, la “incentivazione” e la “premialità” dei comportamenti virtuosi. Da questo punto di vista, un altro aspetto imprescindibile sarà quello del superamento della spesa storica: non si può continuare a fare di tutta un’erba un fascio premiando l’inefficienza e quant’altro.

Anche il principio di territorialità rappresenta un altro elemento fondamentale: occorre che le risorse vengano imputate ai territori secondo i gettiti che lì si realizzano, senza prima confluire verso un calderone centrale dove tutto si mischia e si perde la percezione dei flussi. Poi ci dovrà essere la perequazione, anche alta, ma dentro un quadro chiaro di chi riceve e di chi dà. Meglio quindi se questa è orizzontale, piuttosto che verticale. In altre parole la perequazione deve essere responsabilizzante, non assistenzialistica.

Alle Regioni ed Enti locali dovrà infine essere assegnata una adeguata autonomia impositiva sia riguardo ai tributi propri che a quelli ceduti. Il federalismo fiscale potrebbe così diventare lo strumento di politiche innovative improntate all’attuazione organica della sussidiarietà orizzontale, sia nei confronti della Welfare Society che dei mondi produttivi, diventando così la leva di ulteriori passi in avanti di quel processo riformista che il Paese attende.

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