Dal “modello lombardo” al semplice “federalismo sostenibile”. Dalla baita di Lorenzago, Cadore profondo, ai fumi conturbanti dell’Etna. “Cala trinchetto”, si direbbe sopra il Po, perché in effetti la virata leghista è di quelle spettacolari. Dal vecchio muscolarismo impresso al secondo governo Berlusconi, quello della tentata spallata al barocchismo spendaccione di Roma ladrona finita malamente in una devolution cassata da referendum popolare, ad una bozza di riforma di federalismo fiscale si direbbe sorvegliata, presentata ieri dal ministro leghista Roberto Calderoli. D’altronde il flop passato ha lasciato il segno sul partito di Bossi, inchiodandolo ad un realismo sofferto. Forse troppo, ma probabilmente obbligato.
La Lega in fondo ha bisogno di portare a casa qualcosa di concreto e sa benissimo che solo in via bipartisan è possibile farlo, in tempi di stretta finanziaria e di dualismo nord-sud mai davvero ridotto. Azzardare di più, partendo dal modello lombardo (80% del gettito Iva e 15% dell’Irpef trattenuto in casa), con alleati riottosi (il Pdl è ormai un partito meridionalizzato), desiderosi di annacquare il federalismo nella cornice sistemica di un modello semipresidenziale con elezione diretta del capo dello Stato (l’ha proposto ieri Gianfranco Fini), e con una sponda troppo gracile dal Pd (forte nel nord, un po’ meno nel mezzogiorno e a Roma, anche per via dell’antiberlusconismo che torna a fare capolino), è velleitario e Bossi lo sa bene.
Dunque la bozza Calderoli è l’unica esile via ad un accordo possibile. Non a caso attinge a diversi contribuiti: dal documento della conferenza Stato-Regioni del 2007, a studi e simulazioni che circolano da mesi tra i democrat del nord. «Il modello lombardo andava benissimo per la Lombardia, ma dobbiamo trovarne uno che vada bene da Bolzano alla Sicilia», ha ammesso ieri un Calderoli inedito. A dimostrazione della necessità impellente di un dialogo con il Pd, che apre alla bozza, ma anche con i sudisti della maggioranza, con cui il ministro di Bergamo si vedrà a fine agosto appunto sull’Etna per stendere materialmente il documento federale.
Ma vediamola brevemente, la bozza. Il punto di partenza calderoliano, sacrosanto, è «la soppressione della finanza derivata», ossia il trasferimento di risorse dallo Stato agli enti locali, per passare a un sistema di «tributi degli enti locali e compartecipazioni alle entrate dello Stato».
Di conseguenza, basta con il riferimento alla “spesa storica” (trasferimenti sulla base di quanto speso negli anni precedenti), che penalizza gli enti virtuosi, e passaggio al sistema dei “costi standard” (individuazione del livello ottimale di costo per determinate funzioni). Livello, assicura però Calderoli, che «non deve essere per forza quello più basso». Si porterebbe sul breve al default molte regioni del sud.
Per individuare i “costi standard”, il ministro pensa quindi a una cabina di regia che veda rappresentati tutti i livelli istituzionali. E questo è il primo elemento di criticità, perché il rischio di dare vita al solito consesso pletorico e litigioso è molto alto. Anche perché la suddetta cabina dovrà costruire di fatto un “paniere£ di tributi e compartecipazioni che coniughi «flessibilità, modulabilità e territorialità». Come dire: la partita inizia adesso, e l’assalto alla diligenza, le pressioni a non scalfire lo status quo, saranno fortissime.
Altra riserva importante su cui la lobby del sud farà leva per dilazionare e smorzare la bozza sono i tempi di attuazione: ci sarà infatti un consistente periodo di “scivolo” per consentire l’individuazione dei costi standard e relativo adeguamento. Ma anche sui cosiddetti livelli essenziali e sul fondo di perequazione ieri Calderoli ha tenuto a rassicurare il Pd e il club delle Regioni. «L’articolo 119 non lascia dubbi – ha precisato – e stabilisce che compete allo Stato». Sulle tre materie, dunque, resterà la “perequazione integrale”, mentre per il trasporto pubblico si pensa ad una “forma ibrida.” La vera novità, piuttosto, è che nella bozza al fondo perequativo dovranno partecipare anche le Regioni e le Province a statuto speciale. E già questo, sarebbe una mezza rivoluzione. Dentro però un disegno dalle buone intenzioni, con spunti innovativi, ma troppo a rischio di imboscate centralistiche che il Paese, temo, non può più sopportare.