«Testamento biologico presunto»: questa la definizione che dà Francesco D’Agostino, professore di Filosofia del diritto all’Università di Roma Tor Vergata, a proposito della stranezza giuridica emersa dalla sentenza relativa al caso di Eluana Englaro.
Professor D’Agostino, questa è stata una sentenza molto criticata: eppure si è detto anche che la Corte di Cassazione si è trovata costretta a prendere una decisione, a causa delle inadempienze di un Parlamento che non ha ancora legiferato su questa materia. Cosa ne pensa?
Non c’è dubbio sul fatto che il Parlamento non ha legiferato in materia, ma non è nemmeno dubbio che non c’è alcuna lacuna nel nostro ordinamento giuridico che renda indispensabile emanare una legge. Attualmente il nostro ordinamento giuridico è regolato da quello che comunemente si chiama principio di garanzia, in base al quale i medici devono sempre operare nella presunzione che il malato voglia essere curato e che il malato voglia che la sua vita sia salvaguardata. Se la Cassazione avesse interpretato l’ordinamento vigente dando il dovuto peso al principio di garanzia, avrebbe dovuto respingere l’istanza del signor Englaro, e dire che fino al momento in cui non fosse diagnosticata la morte di Eluana, sia con criteri cardiaci sia con criteri di morte celebrale totale, Eluana come cittadina italiana e come essere umano titolare del diritto costituzionale alla salute mantiene il diritto di essere accudita e di essere tenuta in vita.
In cosa ha sbagliato dunque, nello specifico, la Cassazione emettendo quella sentenza?
L’intervento della Cassazione è stato particolarmente grave perché ha inventato – e il verbo non è esagerato – un nuovo istituto giuridico, di cui c’è già una bella e chiara definizione: il testamento biologico presunto. Ma del testamento biologico non si fa cenno nel nostro ordinamento, e meno che mai di un testamento biologico presunto. La Cassazione ha invece individuato tutta una serie di criteri a partire dai quali si potrebbe presumere la volontà del paziente di non essere curato, e sulla base della quale avviare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione. Credo che sia qualcosa di veramente inedito nella storia della nostra giurisprudenza.
Negli ultimi giorni stanno aumentando iniziative a favore del testamento biologico: dal video-testamento di Paolo Ravasin (malato di Sla), alla pubblicazione di moduli per il testamento biologico sui giornali. Cosa ne pensa di queste iniziative?
Bisogna entrare con molta attenzione all’interno di uno dei concetti fondamentali della medicina legale e della bioetica: il consenso informato. Sappiamo tutti che per rendere legittimo un atto medico bisogna acquisire un consenso informato da parte del paziente. Ma sono anni che si discute sull’esatto significato da dare a queste due parole, e soprattutto della parola “informato”. Un dato acquisito che questo consenso informato non può essere presunto, se non in casi estremi, come quando arriva un malato inanimato al pronto soccorso. Quando il malato è capace di intendere e di volere, il medico deve sempre dialogare con lui, deve sempre dargli un’informazione personalizzata e deve, al seguito di questo colloquio, elaborare una strategia terapeutica condivisa dal paziente. Se un paziente prende una telecamera e dà un annuncio, mettendo un attimo da parte – cosa per altro difficilissima – la situazione emotiva e il carattere tragico della vicenda, dobbiamo però porci l’interrogativo: questo paziente è stato informato da un medico del rilievo delle sue richieste? Questo consenso si basa su un’informazione adeguata?
Perché si dovrebbe porre questo problema?
Perché, da quello che si sa, noi abbiamo un video in cui una persona fa una dichiarazione. Ma non è questo il consenso informato. Così come non è un consenso informato firmare semplicemente un modulo: nessun ospedale ricovererebbe un paziente senza attivare un colloquio terapeutico con lui. Nessun paziente è legittimato a mettere in mano al direttore sanitario di un ospedale un modulo, dicendo: fate quello che c’è scritto in questo modulo che io ho firmato. La complessità delle pratiche mediche, e in questo caso di pratiche che toccano questioni di vita o di morte, impone un rapporto personale tra il medico e il paziente. Percepisco dunque un enorme rischio di burocratizzazione del testamento biologico attraverso la diffusione di questi moduli: sono l’esatto contrario dell’informazione, che deve essere completa, esauriente e soprattutto personale.
Si riapre adesso, sull’onda anche emotiva del caso Englaro, il dibattito in sede legislativa sul testamento biologico. È giusto riaprire il discorso?
A questo punto pensa che sia necessario. Perché l’interpretazione che la Corte di Cassazione ha dato per le situazioni di fine-vita, indipendentemente dalle buone o cattive intenzioni del magistrato, ha creato una situazione di fragilità, di debolezza, di ambiguità in ordine alle scelte di fine-vita, le quali, in base alla Cassazione, possono ora essere presunte attraverso indizi, testimonianze, addirittura attraverso stili di vita. Questo è a mio avviso inaccettabile, considerando il rilievo della posta in gioco. Noi non potremmo in alcun modo permetterci di presumere una volontà testamentaria patrimoniale di un qualsiasi cittadino: eppure, deliberare in merito alla successione di un patrimonio è infinitamente meno rilevante che deliberare in merito alla propria sopravvivenza. Bisogna quindi riportare a coerenza il sistema: o noi applichiamo la categoria della presunzione a tutte le attività che concernono questioni essenziali – ma veramente cadremmo nel paradosso – oppure dobbiamo riportare le scelte di fine-vita all’interno di un paradigma legale molto rigoroso.
Per fare questo ci vuole dunque una legge?
Io sono del tutto favorevole ad una saggia legge sul testamento biologico, che da una parte riconosca ad ogni cittadino il diritto di dire di no a forme di accanimento terapeutico e forme di terapia coercitiva, ma che dall’altra garantisca il medico sull’autenticità della volontà informata del paziente e che ne salvi l’autonomia professionale. Ridurre il medico – come l’ha ridotto in questo caso la sentenza della Corte – a colui che deve cessare di alimentare Eluana e al tempo stesso deve mantenerle idratate le mucose significa veramente umiliare la professionalità e la deontologia dei medici.