Sette regioni mantengono tutte le altre che farebbero fatica a tenere aperti ospedali e scuole. È la teoria illustrata da un servizio sull’Espresso, che si basa sui dati elaborati dall’Ufficio studi dell’Associazione degli artigiani (Cgia) di Mestre. Il fattore chiave è il residuo fiscale, cioè la differenza fra quanto lo Stato incassa dai cittadini di ogni regione e quanto spende per loro.
Su 19 regioni e due province autonome, solo sette hanno un residuo positivo: si va dai 38 miliardi della Lombardia ai 2 delle Marche, passando per Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana e Lazio.
Se si considerano i dati per abitante, nella classifica dei più tartassati, restano in vetta i lombardi che ogni anno elargiscono alla pubblica causa 4.000 euro a testa, seguiti dagli emiliani con 3.656. I più fortunati invece sono i valdostani: grazie alle prerogative dell’autonomia incamerano circa 4.191 euro l’uno. Stando a questi calcoli, infatti, circa 30 milioni di italiani vivono in rosso.
Una regione come la Campania, se da un giorno all’altro dovesse cavarsela da sola, dovrebbe azzerare la sanità, chiudendo tutti gli ospedali. Ma non basterebbero per colmare la voragine nei conti di Sicilia e Calabria, che forse dovrebbero tagliare anche le scuole. Pure la Liguria, peraltro, si troverebbe costretta a pesanti sacrifici, visto che il suo residuo fiscale è negativo per 853 milioni.
Se fosse diventato legge, il modello lombardo del federalismo avrebbe dirottato alle regioni l’80% dell’Iva pagata localmente e metà del gettito dell’Imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef). Secondo i calcoli degli economisti, il budget delle regioni sarebbe esploso da 87 a 206 miliardi.
Se è vero che al momento sette regioni mantengono tutte le altre, uno dei problemi è come consentire alle regioni più povere di far quadrare i conti, almeno all’inizio della riforma federalista in arrivo.
L’idea di Calderoli è prendere le tre regioni migliori e calcolare che fetta di tasse devono trattenere per sostenere la loro spesa. Si calcola la media fra le tre. Chi riesce a spendere meno, versa il resto in un fondo (detto perequativo) che verrà ripartito fra chi, al contrario, spende di più. Per pagarsi la propria sanità, alla Lombardia basterebbe trattenere una fetta del gettito Irpef del suo territorio pari a un’aliquota del 4,4%; in Calabria, dove i redditi dei cittadini sono più bassi, si arriverebbe al 16,3%. Le tre regioni migliori – ipotizzate secondo le schema Calderoli – sarebbero dunque Lombardia, Emilia Romagna e Lazio.
L’aliquota media fra le tre (il 5,3% relativa all’Irpef) è però inferiore a quella che sia l’Emilia che il Lazio dovrebbero trattenere per sostenere interamente la loro spesa sanitaria. Questi calcoli hanno un risultato paradossale: solo la Lombardia darebbe un contributo al fondo perequativo, pari a circa 1,2 miliardi. Tutte le altre Regioni, comprese quelle che generano sul loro territorio un gettito fiscale sufficiente a ripagare per intero le loro spese, andrebbero a debito con il fondo perequativo, rimpinguato dallo Stato per circa 11 miliardi l’anno, al quale dovrebbero chiedere denaro continuamente per pagare medici e infermieri.