L’Italia è notoriamente il “Paese delle emergenze”. Occorre aggiungerne una in questo periodo storico. È un’emergenza politica che lascia stupefatti: l’assenza di una forza di sinistra in Parlamento e nella società civile.

Se qualcuno ritiene che il Partito Democratico possa oggi rappresentare una prospettiva di sinistra, reale e moderna, e possa, nel giro di qualche anno, ritornare a essere protagonista di un governo riformatore o punto di riferimento nella società italiana, coltiva probabilmente solo delle illusioni.



Oggi si possono osservare alcuni visi di cosiddetti leader, che hanno strane espressioni, quasi degne da lettino dello psicanalista: la mestizia di Walter Veltroni oppure la corrosiva maschera critica di Massimo D’Alema o ancora la rassegnazione infastidita di Piero Fassino.

Al di fuori del Partito Democratico c’è un deserto, popolato da insignificanti urlatori, tipo Oliviero Diliberto o Paolo Ferrero. E, sparsi qua e là, gli alfieri della più sgangherata e perdente opposizione a Silvio Berlusconi: una pattuglia di magistrati esagitati, un plotone di giornalisti pressappochisti, una squadra di comici, cabarettisti e cantanti degli anni Sessanta e Settanta, più qualche prete di complemento. È curioso che uno psichiatra di sinistra antica, intervistato qualche giorno fa da un grande quotidiano, abbia fatto le pulci di “narcisismo” a chi è passato dalla sinistra alla destra negli ultimi 20 anni. Forse allo psichiatra conviene rispondere semplicemente come faceva Peter Sellers, con una battuta: «Gli suggerisco di farsi psicanalizzare».



Le domande che ci si pone sono queste: come è possibile che, nel giro di 30 anni, la sinistra italiana abbia praticamente perduto un vero e proprio esercito elettorale? Ma, soprattutto, come è possibile che non ci sia argomento “caldo” e attuale dove la sinistra italiana abbia convinzioni profonde, radicate e risposte credibili?

L’impasto teorico di questa sinistra è legato da tempo a un generico pacifismo, a un ecologismo irreale, spesso autolesionista, a un anacronistico statalismo e all’immancabile giustizialismo (il figlio perverso della famosa “questione morale”) che è diventato ormai una bandiera per tutte le stagioni, anche se con diverse gradazioni che vanno dalla vaghezza imbarazzata del Partito Democratico all’ortodossia furiosa della variopinta area dell’ex pubblico ministero Antonio Di Petro, quella che non si capisce bene che cosa “ci azzecchi” con la sinistra.



Per chi ha appartenuto alla storia della sinistra italiana è parso addirittura volgare che non ci sia stata una autentica presa di posizione da sinistra per la sorte di un leader democristiano come Antonio Gava, risarcito dallo Stato dopo la morte per quello che l’apparato della giustizia gli ha riservato nell’arco di 13 anni. Uno scandalo nello scandalo.

Ma il “caso Gava” è solo l’ultimo episodio di una sequenza infernale che parte della sinistra ha innescato in accordo con la magistratura fin dal 1992 e che un’altra parte della sinistra non ha voluto guadare e non ha voluto realmente contrastare. Però, ridurre la triste parabola della sinistra italiana solo alla storia degli ultimi 15 anni è ormai riduttivo. La “lunga marcia” insieme al giustizialismo è solo la grottesca scena finale. Sarebbe come osservare la lenta agonia di una morte ricercata per 50 anni, con una incredibile capacità autodistruttiva e una miopia politica opportunista che non ha eguali in altri Paesi occidentali.

Il fatto è che, lentamente e inesorabilmente, tutti i nodi sono venuti al pettine. Persino la recente morte di Alexander Solgenitsin ha richiamato alla memoria collettiva l’ostracismo di cui il grande scrittore dissidente (così come tutti gli altri dissidenti antisovietici) fu oggetto nel partito comunista italiano, anche attraverso gli scritti e le parole di un uomo moderato come l’attuale Presidente della Repubblica.

È vero che la sinistra è in difficoltà in diversi Paesi occidentali. Lo è stata per decenni, ma è sempre ritornata in maggioranza e al governo attraverso le sue radici nette, precise e democratiche: il movimento fabiano e poi il Labour in Gran Bretagna; la socialdemocrazia di Bad Godesberg in Germania e nei Paesi del Nord Europa. Persino in Francia, gli “elefanti” del partito socialista possono avere chances di riscatto. Così in Spagna, Zapatero non ha nessuna “eredità” comunista da farsi perdonare. È solo da noli, in Italia, che l’egemonia esercitata dal Pci sulla sinistra italiana e i suoi lasciti postumi hanno travolto partiti, prospettive e programmi di una storia che per certi aspetti è stata più che nobile.

Bettino Craxi, l’ultimo grande leader della sinistra riformista italiana, sosteneva che «il Pci non sta a sinistra, ma a Est», cioè, a quel tempo, in collegamento, non solo ideologico, con l’Unione Sovietica. Ma la storia di Craxi e la sua morte, indicano che per la sinistra riformista non c’è mai stato spazio in Italia. Non ce ne fu per Filippo Turati, per Giacomo Matteotti, per Claudio Treves, per i fratelli Rosselli prima e durante il fascismo, non ce ne fu, se non in modo limitato e per un breve periodo, per uomini come Giuseppe Saragat, per Pietro Nenni e per Bettino Craxi.

In realtà, la sinistra italiana paga un deficit culturale che solo gli intellettuali italiani potevano mascherare con la cosiddetta egemonia. Ci fu in effetti questa egemonia, ma fu l’egemonia di una cultura retrograda, legata all’ideologia e incapace di cogliere i tempi della storia.
Il leader della sinistra del Psi, Riccardo Lombardi, rifiutava ancora negli anni Ottanta il termine riformista. Arroccati intorno al Pci, la maggioranza degli intellettuali italiani è finita completamente fuori dalla storia, non è riuscita neppure più a osservare la realtà. Con tutta probabilità questi intellettuali non sanno neppure quante fasi di mutamento ha già attraversato il capitalismo italiano dal Dopoguerra agli anni Duemila. Comunque non c’è solo un deficit culturale, che ha condizionato gravemente tutta la società italiana e la sinistra italiana in particolare.

C’è un deficit squisitamente politico del Pci e dei suoi massimi rappresentanti che ha avuto quattro fasi ben precise e che oggi rappresentano il vero testamento del partito, che ha preteso sempre di essere l’unico partito in grado di rappresentare la sinistra italiana, anche quando ha cambiato nome. In sostanza solo per vergogna.

La prima fase è quella del togliattismo, ancora oggi tutelato dagli scribi postcomunisti e tardocomunisti. Il togliattismo con la sua politica della “doppia verità”, con l’occultamento di zone oscure della Resistenza e dell’immediato dopo Liberazione che oggi è stato chiarito e divulgato, portando all’abbattimento di un mito coltivato per anni con un settarismo autoritario. L’ombra nefasta, e politicamente disastrosa, di Palmiro Togliatti arriva fino alla sua morte, quando si impegna a cospirare a livello internazionale, contro i tentativi di revisionismo in Unione Sovietica, contro lo stesso Kruscev, e, in Italia, contro l’ala revisionista nel suo partito guidata da Giorgio Amendola.

La seconda fase è quello dell’esplosione dell’irrazionalismo estremistico di sinistra, che nasce da varie costole della sinistra e della società italiana, per i miti, spesi a piene mani irresponsabilmente, sulla Rivoluzione d’Ottobre e sulla “Resistenza tradita”.

Preso alla sprovvista, il Pci mantiene le distanze da questo estremismo, ma cerca al contempo di controllarlo, nella speranza opportunistica di recuperarlo in futuro. Quindi lo condanna apertamente solo in ritardo e quando si rivela nella sua forma più violenta con il brigatismo eversivo e assassino. Da questi tentennamenti, ripensamenti,condanne e recuperi posteriori, ne verrà fuori un pasticcio, un polpettone ideologico senza capo e senza coda.

La terza fase si sovrappone in parte alla seconda: è la stagione del berlinguerismo, la politica dell’amletico Enrico Berlinguer, che nel momento in cui l’Urss comincia a scricchiolare prende parzialmente le distanze dalla “casa madre”, ma poi ne riafferma l’insostituibile funzione storica. Prende le distanze dallo stalinismo, ma non dal leninismo. Si imbarca nell’eurocomunismo, ma si guarda bene dal difendere nell’Europa libera i dissidenti antisovietici. Si oppone all’installazione dei missili a Comiso, anche se si ritrova “meglio” nell’area della Nato.
Mentre con il suo partito boicotta la Biennale di Venezia del 1977, dedicata appunto ai dissidenti antisovietici, riserva all’Italia i principi dell’austerità e della questione morale, il tutto imbottito da attacchi spesso sprezzanti contro il revisionismo e il riformista Craxi. Tradotto in politica, il vuoto spinto, il nulla.

La quarta fase ci porta agli anni Novanta, con i grandi giochi di potere della finanza internazionale mentre esplode definitivamente l’Urss e finisce la storia vista da Francio Fukuyama. Ma comincia quella della grande globalizzazione. In cambio di una metamorfosi impossibile, il Pci diventato affannosamente movimento postcomunista, va a braccetto con banchieri, magistrati e vecchi oligopolisti senza soldi (sempre sovvenzionati dallo Stato) alla ricerca di un “Paese normale”.

Si badi bene che, a tuttoggi, nessuno dei dirigenti di quel vecchio e oggi mutato partito ha mai chiesto “scusa” o ha mai detto “mi sono sbagliato” su questi quattro periodi storici citati.

Perché stupirsi alla fine del fallimento di oggi e di un avvenire molto, ma molto incerto? La storia ha tempi lunghi, che vanno rispettati, diceva il vecchio Carlo Marx. Nel caso del Pci e della sinistra italiana che egemonizzava, questi tempi sono stati rispettati. Resta il dramma per la fine della sinistra laica, socialista e democratica che ha pagato quello che doveva pagare il Pci.

Implacabili nella loro logica, i postcomunisti non sopportavano “nessun nemico a sinistra” quando erano il Pci. Ora, a causa di un Nemesi irridente, devono accettare solo la concorrenza di comici e descamisados. Purtroppo non è un festa, ma un grande dramma italiano.

 

(Foto: Imagoeconomica)