Il ministro della Giustizia Angelino Alfano approda al Meeting di Rimini. Ma per una volta l’agenda del ministro è diversa da quella che ci aspetteremmo. La priorità non sono le polemiche sulla giustizia: il primo tassello della giornata del ministro in Fiera è invece la visita alla mostra dal titolo “Libertà va cercando ch’è sì cara. Vigilando redimere”: una mostra dedicata alle esperienza di recupero dei carcerati attraverso il lavoro. Il ministro segue la mostra, parla con i carcerati e le guardie presenti. E trova il tempo per guardare il video-inchiesta curato dal giornalista Enrico Castelli, con interviste ai carcerati che parlano delle loro esperienze di “rinascita” attraverso incontri, amicizie e, soprattutto, attraverso la possibilità di imparare un lavoro. Il ministro guarda attento, e prende appunti.



Al termine della visione, ilsussidiario.net lo ha intervistato per raccogliere le sue impressioni a caldo.

Ministro, ha seguito con attenzione, e ha preso anche appunti: che cosa l’ha colpita di questa mostra?

La cosa che sorprende è che il carcere non è il luogo dove tutte le speranze muoiono; queste attività, al contrario, dimostrano che il carcere può essere il luogo dove una persona ritrova se stessa, ricostruisce il proprio io e si prepara ad affrontare una nuova vita. Sentire alcuni detenuti dire frasi come «da soli non ci si salva», «ti aiutano gli amici, la compagnia, un incontro», vuol dire sentire un uomo che ha capito non solo che ha sbagliato e dove ha sbagliato, ma anche come ci si può salvare.



Elemento centrale di questa mostra è documentare l’importanza del lavoro per i carcerati. I dati parlano di un bassissimo livello di recidiva tra gli ex detenuti che in carcere hanno appreso un lavoro: un dato come questo quali riflessioni suscita, anche dal punto di vista politico?

Questo dato è la prova non solo che occorre favorire il lavoro nella carceri, ma che è anche necessario attuare modalità di detenzione che consentano l’attività lavorativa. Nelle carceri la permanenza media è di 11 giorni: cosa si può insegnare a chi sta in carcere così poco? Occorre capovolgere le dinamiche di ingresso e uscita nelle carceri, perché è assolutamente patologico che nelle carceri siano più detenuti in attesa di giudizio rispetto a quelli che stanno scontando la pena. Questo è il sintomo che non ci sono i crismi per dire che la certezza della pena è fatta salva nel nostro Paese.



Quando si parla di detenuti ci si scontra con una parte dell’opinione pubblica che vuole solo essere rassicurata sul fatto che chi è colpevole sconti la pena: come rassicurarli che l’attenzione ai detenuti non è un venir meno della certezza della pena?

Semplicemente dicendo che non vogliamo buttare fuori dalle carceri nessuno. Noi non abbiamo una volontà né “buonista”, né “indultista”. Noi siamo dell’idea che dentro l’istituto di pena un uomo può ritrovare se stesso e, scontata la pena, può evitare di tornare a delinquere. Questo è un elemento di sicurezza del Paese. Non vorrei che si confondesse il lavoro nelle carceri con le scarcerazioni. Qui si parla di detenuti che lavorano dentro le carceri, e il lavoro serve a far sì che, scontata la pena e quindi espiata la colpa, possano evitare di delinquere, perché hanno costruito per loro stessi una prospettiva professionale.

Per fare questo è indispensabile la formazione di chi lavora con i carcerati.

È sicuramente importante la formazione e la valorizzazione dei volontari, ed è fondamentale  sostenere l’attività delle tante associazioni no profit, che nelle carceri possono offrire occasione di incontro e di compagnia ai detenuti. È proprio tramite questo incontro che i detenuti stessi possono ricostruire loro stessi.

Si sente dunque di dire che il governo investirà su questo aspetto?

Noi dobbiamo investire molto sul lavoro nelle carceri. Questo investimento deve muoversi su tre binari: migliorare le condizioni di lavoro dei detenuti all’interno; garantire la formazione degli operatori che devono andare a favorire il lavoro dei detenuti; e infine creare una banca dati riguardante la professionalità dei detenuti, che diventi una vera e propria banca dati di offerta al mercato del lavoro. Questi sono pezzi di un sistema che può agevolare il crollo della recidiva.

Sul versante politico, dopo l’estate si entrerà nel vivo del dibattito sulla riforma della giustizia: ci si può attendere una riforma condivisa?

Siamo al lavoro per questo. La riforma della giustizia è una priorità della ripresa dell’attività politica parlamentare. La faremo e sarà una grande sfida, un grande banco di prova tra chi vuole cambiare e chi vuole conservare. Così com’è la giustizia non ci piace. La vogliamo cambiare e lo faremo dialogando, perché decidere senza dialogare somiglia troppo a una dichiarazione di guerra unilaterale. E parlare senza decidere è l’esatto contrario di una cultura di Governo che vuole dare risposte al nostro Paese.

Quali saranno i contenuti essenziali della riforma?

La nostra riforma terrà al centro i cittadini che non ne possono più di un sistema giustizia che non dà loro risposte o che le dà dopo dieci anni, e per di più incerte. I cittadini meritano un processo più veloce e una giustizia più rapida per risolvere le loro controversie. E noi daremo un ventaglio di risposte sull’efficienza.

Quali?

Risposte che riguarderanno le sedi disagiate delle Procure e le sedi di frontiera, sia per risolvere il processo penale che quello civile. Inoltre ci saranno misure di contrasto a mafia e criminalità organizzata. Di questo parleremo con gli alleati nei prossimi giorni.

C’è sul tavolo anche la proposta della Lega di avere pm eletti dal popolo?

Il rapporto tra pm e giudici è un tema in agenda. Con la Lega parleremo.

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