C’è una sottile ipocrisia, a parere di chi scrive, nel dibattito relativo al federalismo fiscale e ai suoi effetti sul Mezzogiorno.
Delle due l’una: o il federalismo fiscale sarà disegnato in maniera efficace o esso sarà indolore per le regioni meridionali (e i loro governanti). Difficilmente si potranno cogliere i due obiettivi contemporaneamente. E non sarebbe nemmeno auspicabile.



Come ogni riforma radicale, la revisione in senso federale della finanza pubblica comporterà dei vincitori e dei vinti. Così come è difficile immaginare la liberalizzazione di un settore economico senza che ciò crei pregiudizio agli interessi di coloro che godevano di una rendita di posizione, allo stesso modo è arduo sostenere che il federalismo fiscale – se attuato in modo compiuto – possa essere indolore per chi finora ha beneficiato dello status quo. A meno che non si intenda depotenziare la riforma.



Un “vero” federalismo fiscale dovrebbe rispondere, tra gli altri, a tre obiettivi.

Anzitutto, essa dovrebbe legare in modo univoco il potere impositivo con la responsabilità del servizio pubblico: l’ente impositore-erogatore è così riconoscibile dal cittadino-contribuente e ciò incentiva comportamenti virtuosi sul lato della spesa e della qualità del servizio offerto. In un certo senso, il sistema politico diventa più competitivo, perché il giudizio sull’operato di un’amministrazione regionale, provinciale o comunale si basa su parametri molto oggettivi: le tasse e i servizi offerti sulla base di queste imposte.



In seconda istanza, il federalismo fiscale dovrebbe incentivare forme di competizione territoriale. Se l’autonomia impositiva è sufficientemente ampia, un territorio potrebbe adottare un regime fiscale favorevole agli investimenti e, perché no, teso ad attrarre nuovi residenti. Tra i diversi territori si può così innescare una concorrenza salutare, in grado di arginare una eccessiva tassazione e spingere i governi locali ad una costante ricerca dell’efficienza economica.

Infine, il maggior grado di competitività – indotto dal sistema federale – crea una tensione sulle risorse economiche disponibili e ciò incentiva i governanti a ridurre l’intervento pubblico sulla società, lasciando spazio al mercato.

È comprensibile che questa impostazione “rigorosa” trovi nella pratica un ammorbidimento, rappresentato dalle forme di perequazione territoriale e dal tentativo di imporre, anziché la competizione, il coordinamento delle politiche fiscali.

Ma una riforma effettiva, per quanto ammorbidita, minerebbe comunque il sistema di potere delle classi dirigenti meridionali, colpendone le caratteristiche salienti: la sostanziale irresponsabilità sul fronte della spesa, la cultura assistenzialista e nient’affatto competitiva del rapporto centro-periferia e nord-sud, la tendenza ad espandere il controllo della politica sull’intero spettro delle relazioni sociali ed economiche.

In un mare di parole sull’argomento, la posizione più sensata è stata quella del governatore della Puglia, Nichi Vendola, intervistato lunedì scorso da Il Mattino: o il Sud “sabota” il federalismo per limitare i danni o trova la bussola del coraggio. Il coraggio sta nel consentire o favorire il naufragio di un intero sistema di malgoverno clienterale, piagnone ed assistenzialista. È paradossale, ma è così.

Un vero federalismo fiscale colpirebbe – rompendolo o, quantomeno, scalfendolo – il sistema di rendite e garanzie di cui oggi gode un certo Mezzogiorno. Nel lungo periodo, ciò rappresenterebbe un evidente vantaggio, in termini di crescita economica, di benessere, di democrazia. Ma nel breve periodo è normale (anzi, opportuno) che una riforma in senso federale “danneggi” il Sud e lo esponga alla necessità di un cambiamento profondo.

Proprio per questo, si avverte puzza di bruciato. Il rischio concreto è che – per rassicurare le amministrazioni meridionali ed una fetta dell’opinione pubblica cresciuta per decenni nel mito del “Sud da aiutare” – il dibattito si canalizzi sull’ammontare delle risorse trasferite dal centro alla periferia, anziché sulle responsabilità, sull’autonomia e sugli strumenti fiscali. Il risultato sarebbe l’aumento complessivo della spesa pubblica e della pressione fiscale. Avremmo così creato, in Italia, uno specialissimo caso di statalismo policentrico.

Vendola è probabilmente l’esponente politico meridionale che meno ha da perderci da una riforma compiuta e davvero federale della finanza pubblica. La Puglia è, rispetto al Sud, la Regione più “sana” e l’esponente di Rifondazione non controlla l’establishment locale. Difficilmente ascolteremmo Bassolino, Lombardo o Fitto usare i suoi toni sull’argomento. Ma è alquanto naive – o, peggio, ipocrita – pensare di metter fine all’assistenzialismo con il consenso dei principali assistiti. Il tema del federalismo fiscale si fonda inevitabilmente con quello del rinnovamento del ceto politico meridionale, che appare come un punto cieco della coscienza nazionale, e nella capacità di parlare all’opinione pubblica meridionale con il linguaggio del merito e della responsabilità, del mercato e della competizione.

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