Direttore Polito, è la prima volta che partecipa ad un’edizione del Meeting come ospite. Che cosa si attende?

Innanzitutto di poter vedere l’entusiasmo di tanti giovani e la partecipazione di tanta gente. È la cosa che più mi ha colpito in questi anni. Anni segnati da sospetti di riflusso, di distrazione, di ripiegamento nel privato e nella sfera economica, da parte dei giovani in particolare. Negli ultimi anni il Meeting è stata una dei pochi eventi culturali che ha mantenuta aperta una ricerca sul sé dell’uomo, sul suo posto nel mondo e sui grandi interrogativi della sua esistenza.



I titoli del Meeting sono stati – in alcuni edizioni più che in altre – a volte enigmatici. Cosa vuol dire, per lei, “O protagonisti o nessuno”?

Mi sembra che continui il tema della ricerca della verità. Dopotutto è la questione emergente di questi anni, quella che il dibattito e il confronto tra culture ha rimesso al centro in modo prepotente: la grande discussione filosofica, ma con conseguenze anche politiche e psicologiche, sulla ricerca della verità. C’è una corrente di pensiero che nega la possibilità di raggiungere la verità o di cercarla: il pensiero debole, il relativismo. E dall’altra parte, anche come reazione a questa tendenza, si è affermata una scuola di pensiero che rifiuta la ricerca della verità perché la ritiene inconoscibile. Penso all’integralismo religioso in particolare. Il tema del fondamentalismo islamico è questo: l’uomo non deve cercare la verità, perché è inconoscibile. È rivelata e basta. Non c’è spazio per la ragione.



Il meeting è espressione culturale di Comunione e liberazione. In passato Cl è stata accusata da un certo pensiero laico di voler tentare – o difendere – una posizione di egemonia culturale. Che ne pensa? Che ne pensa del ruolo di Cl nella società italiana?

Cl è stata ed è tante cose insieme. Un movimento di ricerca sull’uomo, sulla sua esistenza e sul suo significato, un movimento religioso però che – a differenza di altri movimenti cristiani e o cattolici che hanno caratterizzato il risveglio cristiano in occidente – mi pare che abbia sempre accompagnato la ricerca sul sé alla ricerca sul ruolo dell’uomo nella società, alle sue opere, al suo impulso di costruzione. Questo è un tratto assolutamente caratteristico del cristianesimo, e fondante della società occidentale. Questa compresenza di riflessione e ricerca sulla persona e sulla sua realizzazione nelle opere mi sembra un tratto molto moderno, anche poco italiano, direi quasi “nordico”.



Che cosa la colpisce?

Il mio interesse sul vostro rapporto tra fede e opere è nato negli anni che ho passato a contatto con l’esperimento laburista in Gran Bretagna. Lì, prima che altrove in Europa, si è cercato di rendere più efficiente e giusto l’ordine economico attraverso il non profit, il volontariato. La vicinanza tra la Cdo e quei modelli esteri mi ha sempre colpito per la sua modernità. E nelle aree del paese dove questo modello ha saputo dare i frutti più maturi – penso alla Lombardia – abbiamo i modelli più avanzati di compresenza di pubblico e privato, di collaborazione tra l’uno e l’altro per il bene comune.  Da non credente, ovviamente interessato e aperto al tema della ricerca della verità – perché, lo ripeto, non sono un relativista – mi attrae l’elemento della “presenza” nella società di una posizione culturale come quella di Cl.

In passato la politica – intesa come gioco delle alleanze – giocava un ruolo fondamentale: vede delle differenze tra le ultime edizioni e quelle passate? Che cosa è cambiato?

In questo, credo che il Meeting abbia anticipato una tendenza. Non nel senso che oggi la politica conta meno di dieci anni fa, perché conta e sempre conterà, ma sono i politici che contano meno. La drastica semplificazione che l’ultima consultazione elettorale ha prodotto nel sistema politico italiano è il frutto di una reazione contro l’eccesso di politica nella vita quotidiana delle persone. È uno dei grandi problemi del paese che questa semplificazione può aiutare a risolvere. Meno partiti, meno correnti, meno capi, meno ingerenze. Mentre la politica con la p maiuscola è una componente essenziale del vivere umano. Bisogna avere un pensiero politico. E mi pare che Cl non abbia mai smesso di avere un pensiero “politico”. Ma dimostra, da qualche anno, una certa insofferenza verso l’eccesso di politicismo. Ripeto, da questo punto di vista mi sembra che abbia anticipato una tendenza.

In particolare, l’incontro a cui lei parteciperà avrà come titolo “Quale protagonismo nell’informazione”. I media danno voce ai veri protagonisti del mondo e della società?

No. La prima ragione è la curiosa struttura della proprietà nel mondo dell’editoria italiana. Gli editori italiani sono in massima parte o impegnati essi stessi in politica – e l’interesse che servono non è tanto quella dell’opinione pubblica quanto di una parte, di se stessi – oppure sono imprenditori che hanno altri interessi economici, e quindi non traggono il loro primo cespite dal rapporto col pubblico che compra e legge i loro giornali. Non c’è l’editore puro, si diceva un tempo… Poi il giornalismo italiano, da un certo punto di vista, è ancora ottocentesco: interventista, molto interno al sistema politico, propenso alle triangolazioni tra i cinquemila lettori che contano, piuttosto che ai lettori che stanno fuori e questo è effetto, ma in parte anche causa, della scarsa diffusione della stampa scritta in Italia. Che oggi vende ancora lo stesso numero di copie che vendeva nel 1948.

Da quali temi del Meeting si aspetta novità?

Dal tema impropriamente detto della scuola. Perché impropriamente detto? Preferisco l’espressione educazione. Noi abbiamo un gigantesco problema di formazione delle nuove generazioni, che in parte affonda nelle difficoltà del sistema scolastico, ma in realtà va ben oltre, perché riguarda le responsabilità dei genitori, le forme di organizzazione collettiva dell’impegno giovanile, l’atomizzazione prodotta dai nuovi media. È un’emergenza più d’educazione che di scuola, anzi quest’ultima è un aspetto della prima. Che ha anche a che fare con la crescita economica, perché le generazioni con una formazione superiore sono anche il viatico migliore per la crescita economica. Il ritardo con cui i giovani fanno una famiglia o entrano nel mondo del lavoro a mio avviso non è solo frutto di una difficoltà economica (non c’è lavoro), perché negli ultimi anni il lavoro è cresciuto, anche in presenza di una certa stagnazione economica. Penso invece siano soprattutto figli di una cultura diffusa nel paese, quella dell’irresponsabilità, per cui il tempo delle scelte e dell’impegno arriva molto tardi. Non è vero che è tutto attribuibile all’economia, ci sono paesi che hanno conosciuto difficoltà simili alle nostre ma in cui la natalità è più alta. Il fattore decisivo è culturale, e quello educativo è culturale per eccellenza.