Comunque vada, la corsa alla Casa Bianca stavolta finirà nei libri di storia. La coppia presidenziale mostrerà al mondo il primo nero, o la prima donna, ed è un segno dell’America che cambia.
Ma quello che accade in questi giorni negli Stati Uniti non è solo una questione di primati da battere. Le elezioni 2008 stanno provocando un terremoto che segnerà la vita pubblica americana – e quella di buona parte del resto del mondo – per molti anni a venire. Il partito Democratico e quello Repubblicano, le due storiche entità politiche americane, stanno venendo rimodellati in questo periodo da due protagonisti insoliti e innovativi come Barack Obama e John McCain.
A due mesi dall’Election Day, poche cose sono certe. Dopo la sorpresa – diciamo pure lo shock – che McCain ha provocato nel paese scegliendo la giovane e semisconosciuta Sarah Palin, governatrice dell’Alaska, come propria vice, in pochi si azzardano a far previsioni su come andrà a finire. Tutto è troppo nuovo, senza precedenti, per poter avere termini di paragone precisi. E gli eventi esterni continuano a far sentire il loro impatto. Se Vladimir Putin non avesse invaso la Georgia, probabilmente Obama non avrebbe scelto l’esperto di politica estera Joe Biden come proprio vice, per cercare di rassicurare l’America e il suo stesso partito preoccupati dalla mancanza di esperienza internazionale del candidato. Se l’uragano Gustav nei prossimi giorni devasterà New Orleans nel pieno della convention repubblicana, a tre anni esatti dalla disfatta di Katrina che imbarazzò l’amministrazione Bush, ci saranno conseguenze politiche imprevedibili. Se poi, come è avvenuto nel 2004, a pochi giorni dal voto si rifacesse vivo Osama Bin Laden…tutto può ancora accadere.
Finita la convention di Denver, che ha incoronato Barack Obama, e pronta a partire quella di St. Paul dei repubblicani, a che punto è dunque la corsa? Difficile contestare un dato: Obama sta vincendo. Non lo dice solo il vantaggio di otto punti con cui è uscito dalla convention, che era abbastanza prevedibile. Lo dice la costanza con cui è rimasto in testa in questi mesi, a livello nazionale e anche in molti degli stati-chiave dove si decide il voto. Il candidato democratico è avanti in Michigan di 4,3 punti; minaccia di strappare il Colorado e la Virginia ai repubblicani, dopo che Bush li ha vinti entrambi per due volte e con vantaggi dell’8%; insidia a McCain il primato in Ohio, lo stato che quattro anni fa segnò la rovina di John Kerry; potrebbe far suoi il New Mexico e il Nevada e neppure la solida Florida sembra più sicuramente rossa (il colore che sulle mappe elettorali americane tocca ai repubblicani). Le elezioni americane, alla fine dei giochi, si vincono conquistando 270 voti elettorali, non uno di meno. E Obama è avanti non solo nei sondaggi generali, ma nel conteggio dei voti che porterebbero gli stati che sembra controllare.
Denver sembra aver sanato in buona parte il dramma (la telenovela?) dello scontro tra Obama e la coppia Clinton. Il partito ne è emerso più unito. E il suo candidato ha scelto di mettere da parte i discorsi carichi di ideali e di grandi sogni di speranza che lo hanno reso celebre, per chiudere la convention con un attacco a testa bassa a McCain usando armi tradizionali della politica liberal americana. Non è stato uno dei migliori discorsi di Obama, è stato lontano dalla grande retorica con cui ha incantato l’America fin dal voto dello scorso gennaio in Iowa. Ma è stato efficace nell’indicare i contenuti del suo programma e respingere così le accuse di chi lo ritiene un grande oratore e un grande personaggio, ma con programmi vaghi.
Ma proprio da qui, dalla chiusura della convention con un Obama per una volta pragmatico e dettagliato, nasce l’interrogativo delle prossime settimane. Il primo nero a un passo dalla Casa Bianca fino a ora ha stregato il paese con il proprio carismatico appello a credere in lui, a fidarsi della sua persona, più che dei programmi elettorali che propone. Obama ha cavalcato il malcontento dell’America dopo otto anni di amministrazione Bush, la scarsissima popolarità del presidente, la perdita di pazienza per l’infinita avventura in Iraq, la crisi economica, la paura per i mutui da pagare e la rabbia che ogni americano prova ogni giorno alla pompa di benzina, e ha chiesto un atto di fede: “Credete in me, e tutto questo cambierà”.
È bastato per far fuori la possente macchina da guerra di Hillary Clinton. Ma ora che Obama dettaglia le sue idee, in un momento in cui la maggioranza del paese – finora distratta – si sintonizza sulla corsa, ecco che emerge un programma né più né meno analogo a quelli proposti nelle precedenti elezioni da Al Gore e John Kerry. Ai predecessori di Obama non bastò per convincere gli americani ad affidar loro lo Studio Ovale. Il candidato democratico del 2008 ripropone ora un ambizioso e costosissimo programma di interventi federali a tutti i livelli promettendo di far pagare solo i ricchi e di non alzare le tasse per gli altri. Il malcontento per Bush potrebbe dargli la spinta finale che mancò ai democratici quattro e otto anni fa. Ma non è detto.
McCain e il suo stratega Steve Schmidt – che ha creato in passato “miracoli” come l’elezione di Arnold Schwarzenegger in California – sono stati efficaci nel corso dell’estate nel dipingere Obama come una celebrità con pochi contenuti e nell’attaccarlo sul piano dell’esperienza. La crisi nel Caucaso ha dato una spinta in più e McCain si è trovato, all’apertura della stagione delle convention, alla pari con Obama. In un anno evidentemente democratico, con il malcontento che circola in America e con la copertura mediatica di cui gode il senatore dell’Illinois, si è trattato di un risultato eccezionale. E di un sonoro campanello d’allarme per Obama.
I democratici erano sicuri di poter premere sull’acceleratore e allungare indisturbati dopo la convention, restando in fuga fino al 4 novembre. Ma l’eco delle parole di Obama nello stadio di Denver era ancora nell’aria, quando McCain ha piazzato la proprio sorpresa estiva.
La scelta della Palin come “running mate” è una scommessa nel pieno stile da cane sciolto che ha reso celebre McCain e che ha spinto il partito ad affidare a lui le sorti del voto di novembre (per quanto i democratici cerchino di dipingerlo come un Bush-bis, non c’era candidato tra quelli repubblicani di quest’anno che fosse più lontano da Bush di McCain). La governatrice dell’Alaska, uno stato che la maggior parte degli americani conosce solo attraverso i documentari televisivi di Discovery Channel, è un personaggio completamente innovativo e inatteso, e ha cambiato in modo radicale la corsa. McCain ha messo in campo una 44enne madre di cinque figli, di cui uno che sta per partire per l’Iraq e l’ultimo, nato pochi mesi fa, affetto da Sinrome Down perché la madre, pur sapendo che era a rischio, non ha preso minimamente in considerazione l’ipotesi di interrompere la gravidanza. Una femminista nuova, che rivendica per le donne un ruolo di primo piano come faceva Hillary, ma lo fa da una posizione conservatrice. Antiabortista, favorevole alle armi, grintosa, supersportiva, sposata da 20 anni con un mezzo eschimese che lavora nei campi petroliferi, “Sarah Barracuda” – come la chiamavano nella squadra di basket della scuola – è una donna con cui milioni di mamme americane possono connettersi. La sua famiglia è l’incarnazione del sogno americano. Con il marito, viene da un ambiente di lavoratori e ha la capacità di farsi piacere dai sindacati. Come governatrice, nonostante la giovane età, è paradossalmente l’unica nel quartetto dei candidati (Obama-Biden e McCain-Palin) ad avere una qualche esperienza esecutiva, in un anno che sembrava dominato dai senatori e dai politici puri. Proveniendo dall’Alaska, lo stato delle grandi risorse naturali, dell’ambiente, ma anche del petrolio, è perfetta per affrontare uno dei temi chiave della campagna: la questione energetica.
I rischi che McCain ha corso scegliendola sono innumerevoli. L’accusa di inesperienza con cui da mesi attacca Obama, adesso sembra disinnescata. Gli americani si trovano di fronte alla prospettiva di mandare alla Casa Bianca un settantaduenne – McCain è il candidato più anziano di sempre – già passato due volte attraverso esperienze con tumori, con il rischio che non finisca il mandato e che la sconosciuta Sarah si trovi alla guida della superpotenza planetaria, a fare i conti con Putin e Ahmadinejad.
Ma con la Palin, McCain è riuscito non solo a strappare i riflettori da Obama, ma anche ad alimentare qualcosa finora mancato alla sua campagna: l’entusiasmo. I conservatori sono “on fire”, sovreccitati dalla scelta e nel giro delle prime 24 ore dall’annuncio hanno sommerso McCain con 7 milioni di dollari. E centinaia di migliaia di famiglie che avevano riserve sul candidato repubblicano, stanno ora tornando a muoversi verso di lui, affascinati dal candidato innovativo che è riuscito a mettere in campo.
(Pietro Sordi)