Federalismo fiscale, il cerchio si stringe e tra poco, finalmente, si passerà ai numeri veri, l’unico criterio per giudicare la bontà o meno della madre di tutte le riforme. “I numeri, i numeri, altrimenti senza parliamo di nulla”, ha invocato ieri Pier Ferdinando Casini. Non ha torto. Perché sui sacri principi ormai ci sono quasi tutti: costi standard delle prestazioni, responsabilizzazione e accountability, affidamento ad ogni livello di autonomia di una tassazione di propria competenza, dunque tributi propri. Il problema però è che non basta questo e ad un certo punto il governo sarà chiamato a tagliare il nodo gordiano. Perché la coperta è corta e sempre lì si torna: se le regioni del nord tratterranno più fondi in cassa di quelle del mezzogiorno, dove hanno raccolto una messe di voti ad aprile, è difficile possano mantenere il livello attuale di trasferimenti, cioè gli stessi soldi, a meno di un aumento della pressione fiscale. Come la mettiamo dunque? Non a caso sul punto il governo è ancora evasivo, svicola, oscillando tra partito del sud da un lato e Lega, Formigoni e Galan dall’altro. È sempre così quando si va a riscrivere un patto fiscale specie in un paese così fortemente polarizzato dal punto di vista geografico come l’Italia, che incorpora un dualismo nord-sud così marcato.
Ma andiamo con ordine e partiamo dal tormentone Ici. Non verrà reintrodotto, questo ormai è sicuro. Al suo posto dovrebbe esserci una service tax che comprenderà l’Irpef sulle rendite immobiliari e l’Ici sulla seconda casa. Al vaglio anche l’ipotesi di accorpare alla nuova tassa l’imposta ipotecaria e catastale. Il tutto potrebbe rendere ai comuni un gettito tra i 15 e i 20 miliardi per finanziare i servizi urbanistici e quelli ai cittadini. Ma anche qui: via l’Ici ma poi il totale dell’accorpamento fiscale non deve crescere rispetto al livello attuale di tassazione sul cittadino, altrimenti ha ragione Roberto Formigoni quando dice che si prenderebbe in giro la gente reintroducendo dalla finestra la vecchia imposta comunale sugli immobili.
Altro nodo decisivo è stabilire quale tributo sarà devoluto alle Regioni per coprire integralmente le spese per assistenza, istruzione e sanità. Bocciata dal ministro Fitto la possibilità che passi dal centro alla periferia tutto o gran parte del gettito Irpef, si torna all’ipotesi Irap più compartecipazione e addizionale Irpef e compartecipazione all’Iva. Ma in che quote? Boh.
Per ora è un mistero. Anche il meccanismo della perequazione è tutto da scrivere e non sarà semplice trovare la quadra.
Così come tenere dentro la riforma le regioni a statuto speciale. Senza il loro coinvolgimento, non ci sarà futuro per la riforma. E ancora. La sostituzione della spesa storica con i costi standard è sì una rivoluzione sacrosanta, ma va ancora indicato a che media regionale verrà parametrata. Idem sui tempi della transizione al nuovo regime. Dice il governatore Galan: “Che riforma è una riforma che dura 10 anni?”, come chiedono alcuni governatori del sud? Già. Anche per questo le ormai svariate bozze Calderoli sono giudicate «troppo democristiane» dal fronte nordista. Il vero timore, infatti, è che la montagna partorisca il solito topolino, incapace di cambiare strutturalmente l’attuale modello centralistico, magari con la beffa di aumentare i centri di spesa nel periodo di transizione per non scontentare le lobby meridionali forti nel Pdl. In ogni caso, domani il ministro Calderoli incontrerà una rappresentanza dei governatori e dovrebbe portare il testo del ddl in Consiglio dei ministri per un esame preliminare. Giusto per tranquillizzare la Lega che sul federalismo si gioca una partita decisiva e naturalmente scalpita.