Nell’aula magna dell’Università di Padova, al convegno organizzato dalla rivista diretta da Mario Bertolissi, si è fatto il punto sul federalismo fiscale, una riforma destinata a cambiare l’assetto istituzionale e i comportamenti politici del nostro Paese. I lavori del governo sono in dirittura di arrivo, con un ultimo appuntamento con Regioni e Enti locali e poi il definitivo passaggio in Consiglio dei Ministri.



Il traguardo è quindi vicino per una riforma bipartisan, perché porta a sintesi i lavori degli ultimi anni: quelli dell’Alta Commissione, quelli del Governo Prodi, che aveva approvato un disegno di legge, quelli delle Regioni e degli enti locali, che in questi anni hanno maturato una fondata posizione. È una riforma che introduce una serie di principi importanti, che riprendono – come ha notato Franco Gallo, giudice della Consulta – il contributo che la giurisprudenza costituzionale ha fornito in questi anni, sempre sollecitando l’urgenza dell’attuazione del federalismo fiscale. Solo quest’ultimo, infatti, permette di coniugare in modo virtuoso autonomia e responsabilità, con una possibilità di razionalizzazione della spesa e di controllo democratico degli elettori regionali e locali.



Altrimenti un federalismo come quello voluto dalla riforma costituzionale del 2001, che ha decentrato forti competenze legislative, rischia di lasciare il Paese a metà del guado, nella peggiore delle situazioni possibili dove lo Stato non si ridimensiona e Regioni e Enti locali non si responsabilizzano. La Corte dei Conti ha infatti messo in evidenza che negli ultimi dieci anni, nonostante il “cantiere federalista” decentrasse funzioni, i dipendenti dello Stato centrale, anziché diminuire, sono aumentati di centomila unità. Regioni ed enti locali non si sono responsabilizzati: lo Stato ha continuato a ripianare con decine di miliardi di euro a piè di lista i loro conti, di fatto premiando chi di più – e male – aveva speso. Il federalismo fiscale è l’antidoto a questa – altrimenti devastante – situazione di stallo. Si sostituisce infatti il criterio del finanziamento in base alla spesa storica (che finanzia servizi e inefficienza) con quello del costo standard (che finanza i servizi ma non l’inefficienza).



Questo per il ceto politico significa cambiare registro: in una parola,significa responsabilità e resa del conto all’elettore. Si cancellano poi i trasferimenti statali a regioni e enti locali e i relativi importi vengono “fiscalizzati”, diminuendo corrispondentemente l’imposizione statale. Questo significa “tracciabilità” dei tributi, cioè mettere il cittadino nella condizione di giudicare come vengono spesi i soldi che gli vengono chiesti, soprattutto a livello locale. Significa anche poter abbassare, a livello regionale e locale, la pressione fiscale per cittadini e imprese nel caso di gestioni oculate delle risorse pubbliche. Il cittadino farà da arbitro.

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