L’intesa quadro è stata firmata da tutti i sindacati confederali. Al di là della novità delle ultime ore, una svolta è stata quando la Cgil si è detta disponibile al dialogo. Non solo la Cgil, però, sembrava senza alternative, ma anche Veltroni, che rischiava di scontare l’assenza di iniziativa politica, e lo stesso Berlusconi. Che ne pensa?
Mi sembra un’analisi corretta. In questa vicenda tutti avevano qualcosa da perdere, ma anche qualcosa da guadagnare, in termini di credibilità, e questo ha indotto tutti a uscire dal vicolo cieco. La maggioranza di governo il fatto di riuscire a risolvere una questione complessa e cruciale come Alitalia, sulla base di quel che Berlusconi aveva promesso, cioè l’italianità dell’azienda e di cordata italiana si è trattato; viceversa il Pd non poteva rimanere ancorato all’immagine di partito del “tanto peggio tanto meglio”, un partito delle interdizioni e dei veti.
Tutte le analisi fatte in questi giorni riconoscono che con la lettera di Veltroni il Pd è rientrato in gioco. Quindi ne era rimasto fuori: perché? Per scelta o per errore?
Per errore. Il Pd ha commesso un errore di valutazione: si era convinto che Berlusconi non riuscisse a fare l’operazione. Invece la maggioranza ha messo a segno il punto e il centrosinistra è stato costretto a tornare sui propri passi.
Ha ragione Michele Salvati, sul Corriere di oggi, a dire che ai piani alti il nostro capitalismo non è di mercato, ma è un capitalismo “di relazioni”? In altre parole, come e in che misura, a suo avviso, una delle più importanti partite industriali italiane ha subito scelte strategico-politiche che le sono estranee?
Quello che scrive Salvati è sostanzialmente vero, c’è in Italia oggi un capitalismo “di relazioni”. Non sempre la propensione al rischio di impresa è la priorità: abbiamo bravi capitalisti, ma ai piani alti c’è un fattore politico che influisce molto. Detto questo, a mio avviso è illusorio pensare che l’operazione Alitalia non fosse anche una partita politica, ritenendo invece che si giocasse solamente sul piano delle relazioni industriali. In qualsiasi paese europeo, l’elemento politico si sarebbe rivelato determinante.
È difficile stabilire tra chi Cgil e Pd abbia avuto il primato dell’iniziativa, quando si è trattato di sedersi nuovamente al tavolo. Lei che ne pensa?
Credo che sia stato un gioco di scatole cinesi, in cui il sindacato autonomo dei piloti, che non c’entra con la Cgil, si è trovato “coperto” dal no della Cgil, e la Cgil era a sua volta coperta dal no del Pd. Un fatto è certo: la Cgil si è mossa quando il Pd ha deciso di rientrare in gioco.
Come cambia l’opposizione dopo la vicenda Alitalia?
Questa è la domanda cruciale. Staremo a vedere. Penso che si debba fare tesoro dell’intera vicenda, che insegna qualcosa a tutti. Certamente al governo e alla maggioranza, ma in particolare lo insegna al sindacato, che dovrà in qualche modo “reinventare” se stesso, uscendo da uno schema ideologico preconfezionato che ha rischiato di pregiudicare tutto. Lo stesso vale per il Pd: è alla ricerca di un’identità che a mio avviso non ha ancora trovato del tutto. Deve innanzitutto definire cosa vuol dire essere una forza riformista. È bene che una forza riformista di opposizione come il Pd abbia un legame col sindacato, ma questo legame deve essere messo poi al servizio del paese, senza forzature ideologiche. Tutti potranno, ripeto, imparare qualcosa dalla vicenda Alitalia, a patto di non dividersi in una stucchevole discussione su chi ha vinto e chi ha perso.
Tornando al sindacato, la vicenda Alitalia avrà ripercussioni nella trattativa tra Confindustria e sindacati per la contrattazione?
Spero che abbia ripercussioni positive. Avendo subito un inciampo, la tentazione della Cgil potrebbe essere quella di ritrovare nuovo “smalto” assumendo una posizione totalmente intransigente sulla riforma della contrattazione, tentando di esercitare una spinta egemonica sulle altre confederazioni. Sarebbe deleterio. Esistevano le premesse, invece, di una trattativa interessante, che poteva portare a risultati molto utili. Sarebbe un peccato perdere quest’occasione.
La “difesa dell’italianità” è stato uno dei punti più criticati della condotta del governo. Come si spiega? Ragioni personalistiche del premier o pregiudizio economico-culturale fuori tempo massimo?
È stata certamente una mossa politica. L’operazione Air-France aveva una sua validità dal punto di vista industriale – certamente più del piano Fenice nei suoi termini originari, che non prevedeva l’apertura ad un partner straniero. Però a mio avviso l’iniziativa è partita tardi: non si può fare un’operazione del genere in piena campagna elettorale, quando mancano pochi giorni al voto, perché ci si espone inevitabilmente a forti contraccolpi. Quando i sindacati si sono opposti, Berlusconi ha colto l’occasione per giocare la carta dell’italianità, che in quel momento era quella più “pagante” dal punto di vista elettorale. È stata una scelta giusta o sbagliata? Di fatto, in un modo o nell’altro, c’è un risvolto politico. Berlusconi è stato capace, sia pure con enormi difficoltà, di mantener fede a questo e di mettere in campo una cordata. Daremo un giudizio più compiuto sull’operazione tra uno o due anni. Dal punto di vista politico, posso benissimo comprendere la scelta di puntare sulla carta dell’italianità. Anche se personalmente non la condivido fino in fondo.
Un’ultima considerazione sul piano Fenice. C’è chi dice, conti alla mano, che è molto debole. Qual è la sua opinione?
Sì, ci sono elementi di fragilità. L’aver accelerato nella ricerca del partner estero di minoranza è senz’altro uno dei motivi che hanno permesso di sbloccare la situazione. Palazzo Chigi ha giocato con intelligenza, dal canto loro centrosinistra e sindacato hanno avanzato una richiesta plausibile, chiedendo di integrare la cordata con la partecipazione di un partner estero. Questo è un elemento che a mio avviso rafforza il piano. Da un certo momento in poi è prevalsa la ragionevolezza e si è capito che si doveva e si poteva lavorare per far riuscire l’operazione, e non per farla fallire.