Professor Barcellona, in una recente intervista Luciano Violante ha auspicato una ripresa del dialogo con la maggioranza sul tema della giustizia. Questa apertura arriva in un momento molto delicato della vita politica del paese, ancora segnato dal conflitto tra magistratura e politica. Qual è la sua opinione?

Questo scontro c’è e a mio avviso, contrariamente a quello che molti pensano, in realtà si sta aggravando. E francamente non vedo la disponibilità ad affrontarlo in modo non compromesso da pregiudizi. È un conflitto cominciato negli anni ’90 e lungi dal fare i conti con le conseguenze, ci troviamo ancora nel mezzo. Naturalmente c’è la necessità che il sistema venga modificato profondamente, ma non è una cosa facile.



È pessimista?

Non sono ottimista perché mi pare molto difficile che il problema possa essere affrontato fuori da un’ottica gravemente unilaterale.

E le numerose attestazioni di disponibilità al dialogo che vengono da maggioranza e opposizione?

Il dialogo, a mio avviso, non ha molto senso perché sulla giustizia non si deve raggiungere un compromesso. La giustizia deve innanzitutto “restituire a ciascuno il suo”. Sono invece i campi della nostra vita collettiva ad essere attualmente in uno stato di gran confusione. Non è un problema di vertici di partito o di politici che dichiarano una vaga disponibilità alle riforme. Credo che invece debba essere interpellato il senso comune della gente, che di questa situazione di conflitto non ne può francamente più.



Si riferisce anche all’opinione di parte della magistratura?

Certo, anche alla stragrande maggioranza della magistratura. I magistrati non sono solo quelli che vediamo in televisione. Moltissimi magistrati lavorano fuori dai riflettori, senza alcuna visibilità.

Quali sono i fattori che pregiudicano lo scenario?

La politica è diventata un agone pugilistico. Io stesso ho fatto politica, sono stato parlamentare comunista e ho vissuto con intensità una stagione di grande scontro, ma che non aveva nulla in comune con la fase che stiamo vivendo. Le contrapposizioni politiche c’erano ed erano molto forti, ma ogni possibilità di sciacallaggio era esclusa a priori. Una lealtà di fondo rendeva possibile una fiducia nel fatto che ognuno faceva la sua parte per ragioni ideali e non per posizioni di potere.



Si è smarrito il senso del bene comune?

Si è smarrito il senso dell’appartenenza ideale, del battersi per qualcosa che va oltre il proprio particolarissimo interesse. Non perché bisogna essere particolarmente generosi e altruisti, ma perché come persone bisogna sforzarsi di immaginare e costruire un futuro che sia diverso dal presente. Le generazioni devono cambiare la realtà, trasformarla e innovarla. Noi invece assistiamo a una lotta politica che non è più confronto, anche aspro, di valori. Essa vede invece nell’avversario un nemico da eliminare. Sembra che la posta in gioco del vincere o perdere sia il potere di sopravvivere.

Eppure maggioranza e opposizione mostrano la volontà di superare il vecchio clima di contrapposizione frontale, per fare le riforme che servono al paese.

Le riforme sono certamente importanti, ma la vera riforma di questo paese è quella che Gramsci chiamava una grande riforma intellettuale e morale. Ma non è una questione di parte. Si pensi a Gentile, che ha presentato una visione d’insieme della scuola e dell’università che rispondeva ad una logica e ad un progetto. Viviamo invece in un mondo politico e sociale che ne è totalmente privo.

A proposito del conflitto tra politica e magistratura si è parlato di rivoluzione giudiziaria. Che ne pensa?

Alla crisi della politica ridotta a lotta di potere puro corrisponde l’invadenza disastrosa e destabilizzante della magistratura. Sono due cose intimamente connesse, perché se la lotta per il potere è lotta per la sopravvivenza e lo strumento penale diventa lo strumento privilegiato. Non a caso è stato detto che la nostra è una repubblica “penale”. Mani Pulite ha inaugurato nel nostro paese un vero disastro. Alle rivoluzioni giudiziarie, come ho scritto tante volte, non ho mai creduto, per tante ragioni. I giudici non hanno alcuna legittimazione democratica a giudicare un intero sistema, devono giudicare i reati e applicare le leggi. Non possono né opporsi né fuorviarle. Non possono processare un sistema, perché sono giudici di un singolo fatto e del singolo caso. Non bisogna dimenticare che le sentenze non hanno efficacia oltre i confini delle parti in causa. A questo proposito la vicenda di Andreotti è emblematica. Non avevo mai visto magistrati produrre una pubblicistica nella quale si riscriveva l’intera storia del paese. E a senso unico. Non penso naturalmente che la storia del nostro paese sia stata interamente limpida, ma non si può ridurre in modo totalizzante la politica italiana a un sistema mafioso, con il presidente del Consiglio capo della mafia e mandante di delitti. È un’aberrazione culturale che consolida l’idea che la politica sia essenzialmente malaffare.

Occorre ristabilire un equilibrio tra rispetto della legalità e tutela dell’autonomia della politica. Se spetta alla politica governare il sistema, il lodo Alfano può garantire un nuovo equilibrio?

Sono convinto che un certo tipo di garanzia agli uomini che svolgono attività politica nell’esercizio delle loro funzioni debba essere assicurato. È stato un momento di panico che ha portato, in realtà, all’abolizione di tutte le immunità parlamentari. Nella storia le immunità sono state sempre pensate come garanzia necessaria da eventuali persecuzioni. Certo se il lodo Alfano fosse stato approvato in un altro momento avrebbe creato meno polemiche. Ma il rischio principale che si corre in questo clima è che si facciano tutte pessime riforme.

Che ne pensa della separazione delle carriere?

L’indipendenza della magistratura è sicuramente una cosa da garantire, ma non significa in alcun modo che la carriera debba essere unica. Io ho sempre sostenuto la separazione delle carriere. Non è ammissibile che uno si trovi come giudice il magistrato che ha avuto come pubblico accusatore. La terzietà fa parte della funzione giudiziaria. Il pm non è terzo per nulla, è l’accusa, e non può avere lo stesso ruolo di chi emette sentenze in nome del popolo italiano.

Violante nella sua intervista dice di essere «contrario alla separazione delle carriere: la pluralità delle esperienze ci dà magistrati migliori e un corpo di soli pm, separati dai giudici, sarebbe pericoloso per le libertà dei cittadini». È così?

Lo ha ripetuto anche D’Alema alla festa di Firenze. Francamente non vedo perché. In tutti i paesi europei la pubblica accusa è separata dagli organi giudicanti e non è mai accaduto nulla di drammatico. Il problema è quello di non fare del pm un braccio secolare del potere politico. Basta per questo immaginare un’autorganizzazione come quella del Csm che lo sottrae a forme di condizionamento da parte dell’autorità politica. Non dobbiamo farci bloccare dai rischi che si intravedono a riformare, ma vedere i rischi insiti nella situazione attuale e cercare la via per uscirne.

L’obbligatorietà dell’azione penale?

Si sa benissimo che i giudici selezionano e fanno una politica di scelta. È impossibile attuare l’obbligatorietà dell’azione penale con la quantità di processi che sono impiantati nei vari uffici. Naturalmente questo non deve significare un’indicazione arbitraria, ma che, con garanzie di maggioranze super qualificate, il Parlamento facesse una sessione sulla giustizia in cui richiama alcune urgenze, non sarebbe certamente classificabile come subordinazione della magistratura.

Occorre una riforma del Csm?

Io l’ho visto funzionare molto bene, dal 1976 al ‘79 insieme a Vittorio Bachelet, Giovanni Conso, Federico Mancini, Ettore Gallo, Michele Coiro, Marco Ramat, di Magistratura democratica ma con il senso e la responsabilità dell’organo in cui eravamo. In tutti gli Anni di piombo siamo stati solidali con quella che si chiamava allora politica di unità nazionale. La qualità di quel consiglio era straordinaria. Anche i magistrati di Magistratura indipendente, che era su posizioni opposte a Magistratura democratica, avevano un metodo di ascolto e di grande disponibilità al confronto, oltre che di sensibilità per i problemi del paese. Più che sul Csm, bisognerebbe poter incidere sulle sue attuali correnti, che non possono essere una forma di militanza politica come quella dei partiti. In un momento in cui destra e sinistra hanno perso gran parte del loro vecchio significato e la politica è divenuta scontro di potere, i magistrati dovrebbero sentirsi parte di una riforma culturale del paese. Siamo in un momento in cui ognuno di noi dovrebbe sentirsi chiamato in causa essenzialmente come uomo e non come partigiano.