Diplomazie sempre al lavoro, nonostante le cattive notizie che arrivano dalla Striscia di Gaza. Gli scontri continuano, e le dichiarazioni della parti in causa sembrano essere sempre più intonate ad un rifiuto delle ipotesi di conciliazione. Ciononostante, come conferma il ministro degli esteri Franco Frattini, la costruzione di un piano di pace che possa agire sui due fronti in lotta prosegue senza sosta. In particolare l’impegno dell’Italia si gioca sul sostegno al “piano egiziano”, che potrà a breve approdare in Europa, di fronte al Consiglio dei ministri degli Esteri.



Ministro Frattini, le dichiarazioni dei rispettivi esponenti non fanno ben sperare: Hamas dice di non essere vincolata alle risoluzioni dell’Onu, in quanto il suo governo non è riconosciuto; gli israeliani, dal canto loro, accusano l’Onu di intervenire con decisione solo quando Israele intraprende azioni di difesa. Siamo a una delegittimazione dell’Onu da entrambe le parti?



Nel primo caso non si può parlare di delegittimazione: Hamas infatti non è né uno Stato, né parte di uno Stato, bensì un’organizzazione terroristica, riconosciuta come tale dall’Europa. Quindi ciò che da Hamas arriva è semplicemente il rifiuto ad accettare l’idea dell’esistenza di un solo Stato palestinese – idea invece perseguita dalla comunità internazionale – per far passare l’idea inaccettabile di una Striscia di Gaza autonoma rispetto all’Autorità Nazionale Palestinese. Diverso è invece il caso di Israele: la posizione israeliana, già indicata prima che iniziasse il lavoro del Consiglio di Sicurezza, era di non accettare il cessate il fuoco se questo non fosse stato condizionato alla sospensione dell’attività di lancio di razzi da parte di Hamas. Si tratta dunque di una posizione di merito. È comunque una posizione che io non condivido, dal momento che ritengo che le risoluzioni dell’Onu debbano essere accettate ed eseguite. Ciononostante l’attività della comunità internazionale prosegue, nella speranza che la risoluzione dell’Onu possa essere accolta da Israele. Sull’altro versante, gli egiziani parlano con Hamas, cercando di convincerli all’impossibilità per loro di dichiararsi Stato nello Stato.



A proposito del ruolo dell’Egitto, non si sa più nulla del piano portato avanti da Sarkozy e Mubarak. Cosa può dirci in proposito? Ci sono altre iniziative allo studio?

Ciò di cui ora si parla è il “piano egiziano”: così ha deciso di definirlo l’Onu. Tale piano verrà illustrato formalmente al Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Europa fra pochi giorni. Non abbiamo ancora fissato una data, ma l’Italia ha caldeggiato il ministro degli esteri egiziano Abul Gheit, con cui ho parlato questa mattina (ieri, ndr), e quindi speriamo che egli possa essere a Bruxelles tra pochi giorni per illustrare formalmente all’Europa il piano portato avanti dalla diplomazia egiziana, piano che l’Italia fortemente sostiene. D’altronde è la stessa linea che la risoluzione dell’Onu benedice: cessate il fuoco permanente; canali umanitari aperti senza limitazioni; forza internazionale sul territorio palestinese – cui l’Italia potrebbe contribuire, se vi sarà – per difendere e consolidare il legittimo ruolo dell’Anp e del presidente Abu Mazen.

Lei ha proposto di mettere la questione all’ordine del giorno del G8, che è sotto presidenza italiana, non appena la nuova Amministrazione americana sarà insediata. Quali sono le linee di azione che l’Italia intende proporre?

È una questione di cui il G8 non si è mai occupato, ma vista la drammaticità della situazione credo che sia importante farlo. Si tratterebbe evidentemente di un’azione di medio termine: non si può lavorare al G8 sull’emergenza di queste ore. Io parlerò con la signora Clinton, non appena insediata,  in primo luogo del futuro dello Stato palestinese e della sicurezza dello stato israeliano, e in secondo luogo, parallelamente, della ricostituzione dell’economia palestinese, cioè quella sorta di Piano Marshall per i palestinesi che, questo sì, potrebbe essere compito proprio del G8. Tutto ciò naturalmente verrà fatto in un G8 allargato, sicuramente all’Egitto e alla Turchia, nonché ad altri paesi importanti, sebbene non direttamente coinvolti, come Cina e India, e inoltre invitando anche le Nazioni Unite, nella persona del Segretario generale.

 

Nel discorso al Corpo diplomatico Benedetto XVI ha detto che «l’opzione militare non è una soluzione e che la violenza, da qualunque parte essa provenga e qualsiasi forma assuma, va condannata fermamente». A suo modo di vedere questa posizione ha un semplice valore spirituale o ha una fondatezza storica e politica?

Le parole del Papa sono innanzitutto per il bene dell’umanità; in questo caso però hanno anche una sicura valenza strategica. Naturalmente quando noi parliamo di piano egiziano, di riconciliazione palestinese, di cessazione della violenza da parte di Hamas nonché della reazione, che purtroppo coinvolge vittime palestinesi, da parte d’Israele: quando cioè parliamo di un cessate il fuoco, noi diciamo esattamente questo, e cioè che vogliamo una soluzione politica. È chiaro che la soluzione politica significa riprendere il processo di pace; ma tale processo può essere condotto solo in presenza di un unico Stato palestinese, e non di due stati, l’uno governato da Hamas e l’altro da Abu Mazen.Quindi faccio discendere tutte queste riflessioni dalle parole del Papa, che pienamente sottoscrivo.

Come legge lei l’auspicio di Benedetto XVI che le prossime elezioni in Terra Santa portino «dirigenti capaci» di guidare il processo di pace?

Non certamente come un riferimento a partiti e a forze politiche, ma come l’auspicio che, chiunque sia al governo di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese, si impegni a perseguire la finalità di ristabilire, appunto, un processo di pace. Sarebbe assolutamente errato individuare nelle parole del Papa un riferimento a cambi politici o partitici.

Qual è la sua opinione sulla recente dura presa di posizione del Cardinal Martino in un’intervista rilasciata a questo giornale?

Io rispetto le parole di tutti, anche quando non le condivido. L’espressione «campo di concentramento» non è un’espressione che io avrei usato; l’espressione «orribili sofferenze» è invece una realtà. È proprio nella consapevolezza dell’esistenza di una tale situazione che l’Italia sta preparando un convoglio umanitario, che partirà tra pochi giorni, e che porterà nel territorio palestinese di Gaza una serie di aiuti alla popolazione, come medicine e generatori elettrici. Quindi, al di là delle parole che si possono usare, la tragedia delle vittime innocenti palestinesi è davanti agli occhi di tutti, e bisogna impegnarsi per provi rimedio.