«La comunità internazionale non può pensare di cavarsela interponendo truppe che rafforzino una buona fede reciproca quando questa non c’è. Se vuole ricavarsi un ruolo, deve contribuire in modo forte ad una soluzione politica del problema israelo-palestinese». Nella giornata di ieri è cominciato il ritiro delle truppe israeliane, dopo Hamas ha detto sì ad una tregua di sette giorni. Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali nell’Università Cattolica di Milano, traccia un primo bilancio di questa fase, che ora invoca una soluzione politica forte. Nonostante gli sforzi della comunità internazionale, il quadro rimane estremamente complicato. Anche per l’occidente, dove il già difficile processo di integrazione delle comunità islamiche rischia di essere egemonizzato da spinte fondamentaliste. «Occorre aprire bene gli occhi. È un fatto gravissimo che organizzazioni come Hamas – il che è quanto dire i Fratelli musulmani – stiano tentando di assumere la rappresentanza dei musulmani in Italia».



Israele ha annunciato un cessate-il-fuoco unilaterale e Hamas ha accettato una tregua di sette giorni subordinata al ritiro.

Israele non poteva più sostenere “politicamente” una posizione d’attacco come quella tenuta fino ad ora. Hamas ha potuto sfruttare le conseguenze mediatiche, e quindi politiche, delle vittime causate dal conflitto. Detto questo, la tregua rimane fragile. Non sarà vana se questi sette giorni saranno utilizzati per gettare le basi di un lavoro politico. È vero, Hamas ha accettato la tregua, il ritiro di Israele è iniziato ma il quadro rimane decisamente complicato.



Alla luce degli ultimi eventi, cosa può dire della strategia di Israele?

Israele ha cercato di indebolire fortemente Hamas. Tanto Israele quanto Hamas erano consapevoli che lo status quo fosse insostenibile, per motivi diversi. Hamas ha cercato in tutti modi di ottenere due obiettivi importanti: rompere l’assedio economico di Gaza e rompere il proprio isolamento politico. Ma questo non le è riuscito. E Israele ha cercato di approfittare dell’isolamento politico di Hamas per vedere se si riusciva, in qualche modo, a rimettere politicamente in gioco l’Anp a Gaza. Ma la resistenza di Hamas e il protrarsi degli scontri ha reso questa via d’uscita impossibile.



Lei dunque tende ad escludere la possibilità per una ripresa di ruolo da parte dell’Anp…

Mi sembra difficile perché l’entità e la durata dell’operazione militare, e soprattutto il fatto che la “testa” di Hamas non sia a Gaza, ma a Damasco, rende molto più difficile, nell’immediato, il ritorno in campo dell’Autorità nazionale palestinese. E poi nella regione c’è la longa manu iraniana, che rende la partita ancor più complessa. Abu Mazen potrebbe forse rientrare in gioco se in qualche modo l’Egitto, grazie alla sua mediazione, riuscisse a trasformare questa tregua provvisoria in qualcosa di diverso. La pace, dal punto di vista politico, è quanto mai lontana.

Perché?

La perplessità che hanno accompagnato finora l’ipotesi di una “tregua assoluta” sono venute proprio dal fatto che questa volta si fanno i conti con una crisi dal forte contenuto politico e non meramente militare. Come invece è avvenuto in Libano nel 2006, dove la questione vera era come uscire da una situazione militare che non andava bene né a Hezbollah né a Israele, a fronte di uno scenario politico in cui entrambi avevano molto da perdere e nulla da guadagnare. Là la tregua militare era la premessa necessaria per un’evoluzione politica: Hezbollah non poteva stare più a lungo in guerra con Israele perché stava perdendo il potere a Beirut, e aveva interesse forte a chiudere la vicenda. Ora invece la crisi è prettamente politica.

…e nemmeno la si può circoscrivere agli eventi che si sono determinati dopo il 28 dicembre.

Esatto. Manca per ora uno sbocco politico, perché entrambi – Hamas e Israele – hanno fatto un calcolo ben preciso. Hanno scelto il conflitto come soluzione migliore rispetto allo status quo, hanno deciso deliberatamente di mettere in conto consistenti perdite civili per i loro obiettivi politici. Israele li ha raggiunti? Staremo a vedere.

Quale ruolo spetta alla comunità internazionale?

La comunità internazionale non può pensare di cavarsela interponendo truppe che rafforzino una buona fede reciproca quando questa non c’è. Se vuole ricavarsi un ruolo, deve contribuire in modo forte ad una soluzione politica del problema israelo-palestinese. Ma con un interlocutore che si chiama Hamas il processo è estremamente lungo e difficile. Sappiamo che l’Italia porterà aiuti umanitari a Gaza e questo è doveroso, a mio avviso, nella fase di tregua. È l’unico modo per far capire alla popolazione che il conflitto non ha per oggetto i palestinesi, ma Hamas e la sua politica terroristica. Che mette in difficoltà anche i paesi occidentali, il nostro compreso.

Sta facendo riferimento alle manifestazioni musulmane anti israeliane e alla commistione di politica e religione cui abbiamo assistito nelle nostre città, in occasione delle manifestazioni di protesta?

Sì, ma anche alla polarizzazione del dibattito pubblico. Occorre aprire bene gli occhi. È un fatto gravissimo che organizzazioni come Hamas – il che è quanto dire i Fratelli musulmani – stiano tentando di assumere la rappresentanza dei musulmani in Italia. Sarebbe importante che tutte le agenzie religiose presenti sul territorio nazionale fossero consapevoli della pericolosità strumentale della religione a fini politici, e che non indulgessero in dialoghi avventati, perché non si può utilizzare nei confronti dei soggetti politici l’atteggiamento che si usa nei confronti dei soggetti religiosi. Il dialogo interreligioso va bene con le organizzazioni religiose, ma quando la religione è volta a uso politico, non capirlo e usare la lingua dell’ecumenismo è pericolosissimo.

La crisi mediorientale rischia di minare le basi del dialogo?

Il punto è un altro. Che gli ospiti islamici nel nostro paese acquisiscano consapevolezza politica è un fatto legittimo perché siamo nell’Europa delle libertà; ma non è per noi indifferente che questo stia avvenendo su un tema come quello della guerra, e di questa guerra in particolare. Vuol dire utilizzare il tema della differenza non più come uno strumento di arricchimento reciproco, ma come un’arma: il diverso, ebreo e occidentale, da sconfiggere. Non è indifferente che questo avvenga in Italia da parte di organizzazioni politiche radicali, perché questo mina le possibilità del dialogo all’interno delle nostre comunità. Io credo che su questo dobbiamo essere molto fermi.

Qual è la sua opinione su fatti come quelli accaduti a Milano o Bologna?

La preghiera esibita alla fine di manifestazioni come queste è un vero e proprio autodafé simbolico. Persone che pregano dopo aver messo la svastica sulla bandiera di Israele, pregano come pregavano le persone davanti ai roghi degli ebrei, o degli eretici. Bisogna capire che un conto è assistere ad un Te Deum di ringraziamento, un conto e vedere gente che prega dopo aver bruciato simboli e, con essi, le persone che in quei simboli si identificano.

C’è un rapporto tra il cessate-il-fuoco e l’insediamento della nuova amministrazione americana?

In questo momento la crisi del Medio Oriente rappresenta una “distrazione” rispetto agli obiettivi di politica interna e di politica economica che la nuova amministrazione ha in agenda. Ma se il Medio Oriente esplode, gli Stati Uniti certamente non possono far finta di nulla. Purtroppo, però, non è che ci sia molto da fare. Tutti i nodi irrisolti in sessant’anni stanno venendo al pettine in maniera violentissima. Israele si è mosso sulla base della consapevolezza che lo status quo significava lasciar diffondere in Gaza e altrove i movimenti fondamentalisti. E ha scelto una politica di rottura, con tutto quel che questo comporta.