L’appello di Gianni Pittella e Andrea Geremicca al presidente Napolitano ha, tra gli altri, il merito di aver inquadrato in un’ottica concreta, fatta di proposte specifiche, la questione meridionale. Ciò permette – e, parlando di Mezzogiorno, questo è davvero un miglioramento del dibattito – di confrontarsi con misure concrete e non con i consueti e sterili proclami del “Sud da aiutare” o di lasciare il campo alle derive del giustizialismo sommario.
Prima che economica, la crisi del Mezzogiorno ha natura essenzialmente politica e culturale, come notano gli estensori dell’appello, dalle cui parole traspare una condivisibile preoccupazione “repubblicana” per una classe dirigente sempre meno legittimata, ma sempre più autoreferenziale.
Volendo seguire Pittella e Geremicca sull’utile fronte della concretezza, vale la pena spendere qualche parola sulle misure che essi suggeriscono. Alcune sono estremamente importanti: le troppe zone d’ombra tra politica e malaffare e tra politica criminalità organizzata impongono misure eccezionali di trasparenza e di “tracciabilità” dell’operato; la tendenza della politica e della pubblica amministrazione a intervenire pesantemente nelle procedure di appalto richiede che la funzione della selezione sia distante dagli organi decisionali e gestionali; l’intermediazione politica e amministrativa nell’assegnazione delle agevolazione alle imprese va risolta attraverso la riduzione della discrezionalità in favore di misure automatiche e impersonali.
Altre proposte, a detta del sottoscritto, eccedono al contrario in naivitè. Due, in particolare, non convincono: la costituzione di osservatori regionali sulla spesa pubblica e l’istituzione di “cabine di regia” per la gestione di risorse comunitarie. James Carville, il potente consulente politico di Bill Clinton, le avrebbe definite “more of the same”. La prima non aggiunge di fatto nulla a ciò che oggi la magistratura contabile fa o dovrebbe fare (probabilmente in modo più sostanziale e meno formale). Sulla seconda ci chiediamo retoricamente: mancano forse alle regioni del Mezzogiorno tavoli e strumenti di incontro, di concertazione e di programmazione?
Geremicca e Pittella colgono (e lo fanno in più di un passaggio del loro appello) il rischio che deriva dall’eccesso di intermediazione politica nell’economia e nella società. Ma si fermano, diciamo così, sull’uscio di casa: la “pan-politica” meridionale – la politica che intermedia e condiziona il mercato del lavoro, le commesse pubbliche, i piani urbanistici, gli investimenti infrastrutturali – si combatte anzitutto attraverso un generale arretramento del potere politico rispetto alla società e all’economia.
Spiace che i due evochino un fantomatico fallimento storico del mercato: quando mai il mercato ha davvero potuto svolgere liberamente la sua funzione a sud di Roma? Mercato vuol dire eliminazione delle rendite garantite dalla legge, vuol dire concorrenza, responsabilità personale, rispetto dei contratti. Quel riferimento al “dio mercato” evoca l’improvvida equazione “economia di mercato/criminalità”, tanto sbagliata quanto pericolosa, in cui cade anche l’ottimo Roberto Saviano nel suo Gomorra. Pittella e Geremicca finiscono involontariamente per fomentare la radicata diffidenza meridionale per l’economia di mercato, vale a dire per un’economia finalmente liberata dall’opprimente peso della pan-politica.
Insomma, se le iniezioni di trasparenza e di controllo sono importanti e necessarie, ciò che davvero può consentire al Mezzogiorno di uscire dalla palude è una riduzione del peso della politica nella società, un consistente ridimensionamento dell’area dell’assistenza pubblica e una massiccia iniezione di libertà economica (oggi molto limitata al Sud, come ha evidenziato pochi giorni fa l’Istituto Bruno Leoni riportando i dati per l’Italia dell’Index of Economic Freedom 2009), accompagnata da interventi straordinari di tutela della legalità e dell’ordine pubblico.