Piena disponibilità ad accogliere Eluana Englaro in Piemonte, ma solo in una struttura sanitaria pubblica, perché le «strutture private convenzionate sono sotto scacco del ministro Sacconi»: con queste parole assai poco concilianti Mercedes Bresso è entrata nel dibattito, già molto acceso, sul caso Englaro. E la risposta del ministro Sacconi non si è fatta attendere: «Non metto sotto scacco nessuno, ho fatto solo una ricognizione delle leggi da applicare».



Si profila dunque un nuovo conflitto, questa volta tra Regione Piemonte e ministero della Salute? Secondo Aristide Police, ordinario di Diritto amministrativo all’Univeristà di Roma Tor Vergata, questo non può accadere: la decisione di accogliere o meno Eluana Englaro in una struttura sanitaria non è di competenza del presidente di una Regione.



Professore, Mercedes Bresso non ha dunque voce in capitolo?

Per capire questo dobbiamo innanzitutto partire da una distinzione fondamentale tra competenze di tipo politico e competenze di tipo amministrativo. La vicenda di cui qui ci si occupa non è evidentemente di carattere politico, bensì amministrativo, e nemmeno di particolare rilevanza: si tratta del ricovero o meno di un utente del servizio sanitario nazionale presso una struttura.

E di chi è la competenza?

Certamente non compete al vertice politico e amministrativo della Regione, ma alla singola struttura sanitaria che dovesse ritenere di accogliere o meno Eluana Englaro per effettuare la prestazione in questione (sul fatto poi se sia lecita o meno non voglio intervenire). Del resto se si trattasse di un caso meno problematico dal punto di vista emotivo la cosa risulterebbe assolutamente evidente: la governatrice Bresso potrebbe forse far pressioni sulle aziende per far ricoverare il signor Tizio o Caio? Evidentemente no: questa scelta, come tutti sanno, viene presa dalla singola azienda sanitaria, nell’ambito delle rispettive competenze.



Dunque, se la competenza non è del vertice politico regionale, a maggior ragione non lo sarà del ministro: perché allora è stato emanato l’atto di indirizzo tanto discusso?

L’atto è un’altra cosa: il ministro ha dato un indirizzo politico generale sul modo di esercizio della attività sanitaria nell’ambito pubblico e privato convenzionato. Il ministro ha cioè esercitato un potere di indirizzo politico, a lui evidentemente consentito, essendo egli il vertice della struttura burocratica del ministero della Salute. L’atto del ministro, d’altronde, non è specificamente rivolto alla vicenda Englaro, ma ha un valore generale. La differenza dunque è sostanziale: da un lato abbiamo un ministro che dà un indirizzo a tutte le strutture del Paese, garantendo così il principio di uguaglianza nel modo di erogazione delle prestazioni sanitarie; dall’altro lato abbiamo invece un organo politico regionale che effettua un atto di ingerenza su specifiche e autonome scelte delle singole strutture sanitarie. Il politico ingerisce (questo può accadere con atti formali ma anche con dichiarazioni a mezzo stampa) su un indipendente organo amministrativo della struttura sanitaria affinché venga resa una prestazione. È come se il signor Caio venisse raccomandato dal governatore ad ottenere una prestazione sanitaria perché gli è simpatico, o perché la prestazione è politicamente conforme alle idee del governatore.

Cosa ne pensa invece dell’affermazione, sempre del governatore Bresso, in merito a un presunto ricatto operato dal ministro nei confronti delle strutture convenzionate?

È un’affermazione che rientra nella dialettica politica. Le strutture convenzionate hanno piena libertà di azione; ma è ovvio che essendo convenzionate ottengono determinati benefici e quindi si assumono anche determinati obblighi. Il ministro pone linee di indirizzo politiche generali in assenza di una norma legislativa: è pienamente legittimato a farlo, e a farlo nel modo che più ritiene opportuno. Non dimentichiamo che è un ministro di un governo che gode di una maggioranza politica e quindi di una fiducia. Se poi l’indirizzo politico è di segno diverso rispetto a quello del governatore, questo non implica che tale indirizzo sia un ricatto. L’atto poi – ripeto – è di indirizzo generale, e non specificamente rivolto al caso Englaro: è l’esercizio di una facoltà, e direi anche di un obbligo ministeriale. E come tale non può certo essere configurato come azione di ricatto.

Eppure sembra che la clinica di Udine si sia tirata indietro proprio per paura di perdere la convenzione, e che quindi si sia sentita ricattata.

Se una clinica si sente ricattata, e ritiene che la propria non condivisione dell’atto ministeriale abbia una rilevanza giuridica, ha la piena possibilità di contestare tale atto nelle opportune sedi giurisdizionali. Invece non mi pare che nessuna clinica, desiderosa di effettuare questa prestazione, abbia impugnato l’atto davanti a un qualche Tar della Repubblica. Se una clinica si sentisse ricattata non dovrebbe fare che questo: impugnare un atto non ritenuto conforme alla legge e liberarsi così dal ricatto. Se la clinica di Udine non l’ha fatto è perché sapeva di non poterlo fare.

Mentre si susseguono queste vicende, rimane il fatto che la sentenza non ha effetto: questo non è un problema?

No, perché la sentenza non prescrive ad alcuno l’effettuazione della prestazione. La sentenza, in altre parole, non ha come parte alcuna struttura sanitaria pubblica o privata, e non impone l’obbligo di effettuare alcunché. Si esprime semplicemente in termini di liceità o illiceità della prestazione. Nient’altro.

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