Il ddl sul federalismo, in attesa di superare l’esame della Camera, continua a far discutere. Si è partiti con il confronto sul modello lombardo, per arrivare ad un ddl assai modificato. Il Pd si è astenuto, l’Udc ha votato contro, ma entrambi hanno sollevato il problema dei costi. «In realtà la riforma – dice Carlo Buratti, docente di Scienza delle finanze all’Università di Padova – è a costo zero e si basa sul fatto che il ddl non attribuisce nuove funzioni a Regioni o Enti locali, ma trasferisce ad essi entrate per coprire maggiori spese che non saranno più sostenute dallo Stato. Il ddl è buono: il massimo che si poteva fare in questo contesto politico-sociale».



Il ddl sul federalismo, è stato detto da alcuni commentatori, pecca di “vaghezza” perché non determina i costi della riforma.

Il provvedimento non è per niente vago. È anzi molto ampio e molto analitico: consta di ben 27 articoli, alcuni molto lunghi. Pensiamo a deleghe importanti come quella contenuta nella legge n. 133/1999, che ha portato all’emanazione del D.lgs. n. 56/2000, il quale ha riformato profondamente la finanza delle Regioni. Quella legge attribuiva una delega, rimasta inattuata, per rendere più perequativi i trasferimenti agli Enti locali. Il tutto in poche righe. Viceversa, si potrebbe obiettare che contiene troppe cose.



Un eccesso di legislazione?

 

No. Ma su qualche punto il disegno di legge è fin troppo analitico. Indica soluzioni complesse, difficili da mettere in pratica.

È da notare ciò nonostante che le perplessità sui costi si sono avute anche in aula e sono state alla base delle riserve avanzate dal Pd, che ha fatto sapere a Tremonti di subordinare la collaborazione bipartisan ad una chiara definizione dei “costi”.

Su un provvedimento di questo tipo non sono definibili a priori. O meglio: il provvedimento prevede che la riforma sia a costo zero, perché dice che la pressione tributaria non può aumentare, che in prospettiva deve anzi diminuire; e dice inoltre che deve essere compatibile con i vincoli europei definiti dal patto di stabilità. Il costo zero si basa sul fatto che il ddl non attribuisce nuove funzioni a Regioni o Enti locali, ma sostituisce certe entrate con altre e perequa le risorse finanziarie fra enti “ricchi” e “poveri”. Scompaiono i trasferimenti statali, salvo quelli perequativi, e vengono sostituiti da imposte e compartecipazioni ai tributi erariali. Il saldo per il bilancio delle Stato è nullo. È una riforma che applica l’articolo 119 della Costituzione e non il 117, eliminando i trasferimenti residui verso Regioni e comuni che gravano sul bilancio dello Stato e rivedendo in parte il sistema tributario.



Cosa cambia per comuni e Regioni?

L’autonomia che avranno le Regioni e gli Enti locali non sarà molto dissimile da quella che hanno oggi, cambieranno alcune imposte ma sostanzialmente i margini di manovra rimangono quelli di adesso. In più vengono previsti alcuni meccanismi, anche molto stringenti, di controllo dei saldi di bilancio, dei costi e di quanto producono gli Enti. La costituzione di un database molto analitico permetterà di capire come sono gestiti gli Enti e di fare confronti fra enti comparabili.

Lei ha detto che l’introduzione della riforma dovrebbe essere a costo zero. Ci sono margini di incognita?

Sì, nel ddl ci sono alcuni articoli che dovrebbero comportare una spesa, per esempio quello sulla perequazione infrastrutturale. È previsto infatti che nelle aree con infrastrutturazione scarsa si facciano investimenti e questo naturalmente comporta una spesa supplementare. Ma non è detto che questo comporti un costo netto per il bilancio dello Stato, perché dal federalismo ci aspettiamo anche una riduzione di costi dovuta a maggiore efficienza nella produzione dei servizi.

Lo slogan “meno tasse” è una scommessa puramente politica o il nuovo federalismo garantirà effettivamente un calo della pressione fiscale?

Gli aspetti cruciali sono la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e la fissazione dei costi standard, perché decideranno il livello di spesa che andremo a finanziare. Ovvio che se vogliamo tenere la riforma a costo zero, il livello di spesa standard nell’aggregato – cioè per tutti gli enti cumulativamente – non deve essere superiore a quella attuale. E così anche per comuni e province, dove la perequazione è sostanzialmente orizzontale. Se la legge sarà applicata correttamente non ci saranno incrementi di costo o saranno di misura limitata.

Dobbiamo aspettarci sorprese dalla fase transitoria, in cui le Regioni che in base alla spesa storica hanno speso di più, si troveranno ad essere svantaggiate?

Il periodo transitorio è stato ridotto a cinque anni e secondo me effettivamente è troppo breve: in altre esperienze di finanza locale viene fissato in dieci, dodici anni. Questo potrà porre problemi sia al Sud, sia in generale per quanto riguarda la necessità di “tenere il passo” nell’attuazione della riforma. Però va sottolineato che il ddl prevede per ogni Ente un processo di convergenza verso gli obiettivi: costi standard, spesa standard, etc. Se l’ente non dovesse riuscire ad adeguarsi e dovesse presentare scostamenti rilevanti tra risultati conseguiti e obiettivi prefissati, è previsto che ci sia un piano di intervento per consentire all’ente di rientrare: potrebbe prevedere un intervento, a dir la verità non precisato, da parte dello Stato, oppure l’intervento – come avviene in sanità – da parte di funzionari esperti delle Regioni allo scopo di supportare meglio la gestione delle risorse dove questa è deficitaria. È inoltre previsto espressamente che il periodo transitorio possa essere esteso per gli enti che trovino gravi difficoltà ad adeguarsi.

Qual è la sua opinione sul decreto? Ha delle perplessità?

Mi pare che complessivamente sia un buon ddl, il migliore che si potesse fare. Certo non è un federalismo di tipo canadese, o di tipo spagnolo. Direi un federalismo tutto sommato abbastanza “contenuto”.

Che cosa intende dire?

Che l’autonomia di Regioni ed Enti locali non è che aumenti di molto rispetto a quella attuale. Cambiano alcune modalità di finanziamento e viene posto un forte accento sulla perequazione. Certo ci sono molte norme che mirano a tenere sotto controllo le dinamiche di costo degli enti, ma sono norme che potevano essere introdotte anche senza il federalismo… Rispetto al modello della Lombardia, che ha fatto da modello-pilota in una prima fase, in questo modello le “ambizioni” federaliste vengono drasticamente contenute. Ma capisco che di più non si poteva fare.

Per la crisi economica che ha investito anche il nostro paese?

No, la crisi economica non c’entra nulla. È il contesto politico-sociale che non è ancora maturo per un federalismo più radicale. La diversità non piace ed è fieramente avversata dall’opposizione e in parte, e in modo più blando, da frange della maggioranza. Per cui nel federalismo sono state iniettate robuste dosi di egualitarismo, principalmente attraverso i livelli essenziali delle prestazioni che assumono un rilievo sconosciuto ad altri paesi federali, e il forte accento posto sulla perequazione rispetto ai fabbisogni standard piuttosto che sulla perequazione della capacità fiscale. Ma federalismo e uniformità sono due cose incompatibili.

Perché?

Il federalismo in se stesso presuppone che ci siano delle differenziazioni, e una riforma realmente federale può essere considerata il “prezzo” che si paga per avere una maggiore efficienza: si accetta qualche differenza in più tra territori allo scopo di incentivare l’efficienza nella gestione della cosa pubblica.

Dal punto di vista della comunicazione che è stata fatta dell’introduzione del federalismo, si è molto insistito sul fatto dei costi che “non si conoscono”, dicendo di conseguenza che “quanto al merito” il federalismo è un’incognita. Che non si può stimare, lei dice…

Io dico semplicemente che non ci si deve attendere un incremento di costi se non marginale. Mentre nel lungo termine ci si può attendere una riduzione dei costi per una maggiore generalizzata efficienza. Ma ripeto: se vengono fissati correttamente livello delle prestazioni e costi standard si è sulla buona strada per avere una riforma a costo zero o quasi. Certo che se dovessero essere fissati a livello elevato sia le prestazioni che i costi standard allora il prodotto delle due cose potrebbe dare una spesa da finanziare ben superiore a quella attuale, ma non penso proprio che si voglia andare in questa direzione.

Nonostante questo primo risultato storico, in attesa di conferma alla Camera, deve ammettere che si è diffusa una certa preoccupazione. Forse il contenere “solo” linee guida demandando l’attuazione ai decreti legislativi, non ha permesso al ddl di essere quella pietra filosofale che tutti aspettavano.

Occorre tenere bene a mente le linee su cui si muove la riforma. Sostituisce alcune entrate ad altre entrate e poi introduce sistemi di controllo e di incentivo. E se ci sarà o meno un aumento dei costi complessivi dipende dal fatto che riusciremo o meno ad avere dei risparmi su altre spese degli Enti locali o delle Regioni. Se fissiamo i costi standard in modo tale da costringere le Regioni più sprecone a spendere meno, allora ci sarà un risparmio. Il fatto è che sono tornate in circolazione alcune stime che faceva l’Isae sui costi del federalismo. Ma queste stime non hanno nulla a che vedere con i costi di cui si parla oggi in Parlamento e sulla stampa. L’Isae ha stimato il costo delle funzioni ancora da trasferire alle Regioni ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e le ulteriori entrate tributarie da attribuire alle Regioni in sostituzione dei residui trasferimenti statali, nonché della compartecipazione Iva attribuita ai sensi del DLgs. 56/2000. Ma non sono i costi di cui parliamo adesso, e comunque nemmeno le stime fatte dall’Isae rappresentano un costo aggiuntivo per la amministrazioni pubbliche, ma solo un passaggio di risorse e di spesa, per un importo equivalente, da un livello di governo all’altro.