Ci sono casi in cui le convenzioni internazionali esercitano con forza un’azione che punta a sradicare la cultura giuridica di un paese. Negli ultimi 50 anni, anche a livello europeo, abbiamo avuto la prova di questo tentativo di introdurre, talvolta anche forzatamente, i cosiddetti “nuovi diritti”. La conferma ci arriva proprio in questi giorni in cui il Parlamento europeo, sovvertendo le urgenze d’intervento iscritte nelle agende internazionali, sta discutendo attorno ad una risoluzione del 14 gennaio scorso. Una dimostrazione di cui, francamente, non avevamo bisogno.



Da tempo la miglior dottrina giuridica denuncia l’esistenza di un alto rischio che la costruzione della casa comune europea avvenga non nel rispetto delle specificità nazionali o, meglio, “dell’identità nazionale degli Stati membri”, ma alla stregua di un centralismo, di stampo ottocentesco, che impone da Bruxelles le proprie ideologie nei confronti delle varie realtà locali. Con essa, ricorrendo al pretesto di una verifica sullo stato di attuazione dei diritti umani nel territorio dell’Unione europea, si cerca di stravolgere il significato e la portata originaria dei diritti dell’uomo, in contrasto con una visione personalistica che ha costituito il fondamento delle Carte costituzionali contemporanee, tra cui quella italiana.



Le competenze delle istituzioni comunitarie sono segnate con precisione nei Trattati che si sono susseguiti nel corso degli anni a fondamento dell’Unione europea. Lascia, pertanto, stupefatti il tentativo operato dal Parlamento di travalicare tali chiarissimi limiti, ribaditi, da ultimo, anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Se queste tendenze egemoniche delle Istituzioni comunitarie non mutano è inevitabile che si diffondano negli Stati membri reazioni analoghe a quelle del popolo irlandese, con prevedibili conseguenze in ordine al fallimento del processo di integrazione. Quest’ultimo, per essere rilanciato, necessita di attente operazioni “dal basso”, volte a restaurare il primato della “orbis civilis nostrae Europae communicationis” e non certo di imposizioni verticistiche di determinate ideologie come quelle legate al concetto di identità di “genere” o di “diritti riproduttivi”.



Si è venuta ad affermare una giurisprudenza che ha cambiato il concetto di vita e di persona. Gli strumenti attraverso i quali è stata compiuta questa forzatura si ricollegano spesso al metodo nominalistico. Si elabora cioè la decisione di non chiamare più le cose con il proprio nome svuotando di significato quelle che possono essere aree di conflitto della giurisprudenza per favorire la diffusione di tali strumenti. Così facendo non si parla più di diritto alla vita, all’accoglienza della vita e della maternità, ma si parla di diritti della salute riproduttiva. Quando in una civiltà si ridenominano le cose, si cambia il significato delle cose. Nel momento della ridenominazione, effettuata soprattutto nelle carte internazionali, nei documenti prodotti spariscono i riferimenti fondamentali ai valori della famiglia (com’è peraltro avvenuto in Spagna con i termini padre e madre) o si addolciscono i termini che rimandano alle pratiche abortive o eutanasiche.

Ho esaminato punto per punto la risoluzione, proponendo in più parti emendamenti volti a modificare gli interventi contro il diritto e svelare le ambiguità. È significativo il fatto che l’Unione europea abbia ripreso gli Stati membri che continuano “a sottrarsi ad un controllo comunitario delle proprie politiche e pratiche in materia di diritti dell’uomo e cerchino di limitare la protezione di tali diritti ad un quadro puramente interno”. È chiaro che l’intenzione è quella di minare la capacità di controllo sui diritti da parte degli Stati che dovrebbero così smettere di occuparsi di diritto alla salute, di famiglia, di previdenza sociale. Il ruolo degli Stati nella tutela dei diritti verrebbe così diminuita contrariamente a quanto si legge nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La risoluzione si preoccupa anche che il rispetto di tali diritti sia garantito anche all’interno delle “istituzioni chiuse”, pretendendo così di esercitare una funzione di controllo e vigilanza nei luoghi in cui si svolge la vita sociale della gente, ovvero associazioni, chiese, famiglia in primis. Il termine volutamente generico fa capire come si cerchi di non scoprire le carte e, quindi, le reali intenzioni.

Il caso emblematico di ciò che sta accadendo a livello internazionale riguarda il tema della “salute riproduttiva”. È stata in questo caso adottata la tecnica del livellamento perché in alcuni paesi non accettare di promuovere legislazioni abortiste significa non ricevere gli aiuti internazionali. Un metodo poco democratico di costringere i Paesi ad adottare tali provvedimenti.

Abbiamo avuto secoli in cui la giurisprudenza ha fatto il suo percorso intellettuale e individuale; oggi la ragione di stato è molto più incidente sulla vita della giurisprudenza di quanto non fosse in passato. Se il profilo degli accordi internazionali può snaturare la cultura giuridica di un paese a tal punto di implicare che a costituzione vigente non vale quella costituzione bensì un’altra legge, questo indica la complessità del momento giuridico e internazionale. Oggi, purtroppo, come principio generale la giurisprudenza italiana ha accettato che gli accordi internazionali vengono prima di alcune leggi, teoricamente non della costituzione.

In generale, se dovessimo riassumere il percorso evolutivo dei diritti segnalati prima, dal 1948 ad oggi abbiamo avuto tre passaggi chiari. In primo luogo c’è stata un’evoluzione del diritto alla vita che è sfociato nella generazione dei cosiddetti diritti della salute riproduttiva. Poi, la trasformazione dei diritti d’uguaglianza dove la tematica del genere, relativa al principio di non discriminazione, ha avuto una parte da protagonista. Infine ci si è soffermati sui diritti di espressione.

Come noto, con il primo concetto, e cioè quello di genere, si cerca di introdurre l’idea che gli uomini e le donne non sono tali per determinate caratteristiche naturali, ma solo in forza di una scelta culturale, come tale sempre mutabile. L’accoglimento di una tale ideologia porta a introdurre, surrettiziamente, un “matrimonio” tra persone dello stesso sesso, dal momento che sarà sufficiente che una persona affermi di essere del genere opposto rispetto a quello del partner per poter chiedere il matrimonio, come avviene oggi in Spagna. Quanto al secondo concetto, e cioè quello di “diritti riproduttivi”, esso costituisce il cavallo di Troia per l’affermazioni di politiche antidemografiche ed eugenetiche.

Quanto sia illiberale l’imposizione di tali ideologie attraverso un uso distorto delle Istituzioni comunitarie, ben al di là delle loro competenze, è comprovato dal tentativo di ricomprendere nella risoluzione anche quelle che, con un’operazione di vera e propria manipolazione terminologica, vengono definite “istituzioni chiuse”. Con tale termine , come evidenziato ieri da Marta Cartabia, si vogliono intendere “i luoghi dove si svolge la vita sociale della gente”, dalle scuole agli ospedali, dalle parrocchie alle associazioni.

I diritti dell’uomo, nella prima e piena formulazione, fotografano tutto quello che è irrinunciabile. Il primo dei diritti che si afferma è il diritto all’esistenza, il diritto alla vita. La vita è principio imprescindibile affinché l’uomo possa affermare la propria umanità. Se non è tutelata, non ci sarà nessun compimento della legge.

Oggi c’è la tendenza a fare della teoria del diritto una sorta di supermarket dei diritti, in cui i diritti finiscono col configgere e creare questa dispersione dell’umano, in cui nessuno si sente tutelato. Questa è la frontiera estrema di un complesso di norme che erano state generate per uno scopo ma che poi ne hanno raggiunto un altro. Chi si forma nella giurisprudenza deve avere il desiderio di riannodare dei fili. La casistica è minima, ma potremmo fare una lunghissima teoria di casi insoluti che sono alla cronaca da molto tempo.

In sostanza, mediante un’operazione esclusivamente politica, si cerca di imporre il rispetto d’ideologie di parte anche alle Chiese, alle comunità religiose, alle famiglie, secondo un’opera di propaganda che non solo contrasta con il principio di sussidiarietà, nelle sue dimensioni orizzontale e verticale, ma ricorda metodi e prospettive dei peggiori totalitarismi.

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