Oltre che interrogativi etici, il caso Englaro continua a porre a porre questioni giuridico-istituzionali di enorme importanza. Questa è del resto la conseguenza della consapevole e insistita trasposizione della vicenda sul terreno giudiziario, per farla diventare un caso esemplare. Dopo la nota sentenza della Corte di Cassazione, è ora la sentenza del TAR Lombardia a suscitare perplessità.



Si ricorderà che un atto della direzione generale della sanità lombarda negava che il personale del Servizio pubblico sanitario regionale potesse procedere, all’interno di una delle sue strutture, alla sospensione dell’idratazione e alimentazione artificiale di cui goda l’ammalato in “stato vegetativo permanente”, il quale – tramite manifestazione di volontà del tutore e autorizzazione del giudice tutelare – intenda rifiutare tale trattamento. Ora, su ricorso dei legali di Eluana, il TAR annulla tale atto e dispone, pertanto, che l’amministrazione sanitaria indichi la struttura sanitaria più adatta allo scopo.



Con questa sentenza, diventa chiarissimo il passaggio dalla sfera privata a quella pubblica dell’intera vicenda. Una decisione che, fin qui, si inseriva in un procedimento di volontaria giurisdizione – come tale riferibile a rapporti di natura privatistica tra Eluana, il suo tutore e il suo curatore speciale – acquista ora anche rilievo pubblico, coinvolgendo le strutture sanitarie anche pubbliche.

Secondo il TAR, a giustificare la pronuncia è l’assolutezza del diritto costituzionale a rifiutare il “trattamento sanitario” consistente nell’idratazione e alimentazione artificiale. Ora, nessun dubbio che i diritti costituzionali, se esistono, si debbano proteggere nei confronti dei poteri pubblici che, in ipotesi, li neghino. Ma si potrebbe discutere molto se dall’art. 32 della Costituzione, che ragiona di un diritto individuale alla salute, si possa non solo desumere un diritto assoluto a rifiutare ogni sostegno vitale e a disporre così della propria vita, ma anche un corrispondente e assoluto obbligo delle strutture pubbliche a prestarsi, senza eccezione alcuna, a soddisfare questo desiderio (espresso, per di più, non direttamente, ma tramite un tutore). Se la Regione non volesse “ubbidire”, vedremo la nomina di un commissario ad mortem da parte del TAR?



Inoltre, visto che la sentenza opportunamente richiama il principio di legalità come faro dell’attività amministrativa, ci si potrebbe chiedere se un preciso e obbligato facere dell’amministrazione possa desumersi non già da una fonte legislativa, ma da una regola di diritto ricavata in via interpretativa proprio in una materia caratterizzata dall’assenza di una legislazione specifica. La sentenza afferma nettamente che una tale regola di diritto non avrebbe minore effetto conformativo, sull’amministrazione, di una disposizione legislativa esplicita. Ma specialmente in materie così delicate, che coinvolgono diritti davvero fondamentalissimi, sarebbe meglio essere più cauti.

Ancora: ha davvero efficacia di giudicato – come tale vincolante anche per l’amministrazione – il provvedimento su Eluana della Corte d’appello, emanato al termine di un procedimento di volontaria giurisdizione? Per definizione, i provvedimenti assunti in una sede non contenziosa non hanno questa forza, ma sono anzi revocabili e modificabili in ogni momento, proprio perché preordinati all’esigenza prioritaria della tutela dei diritti e degli interessi di soggetti deboli. Il TAR sostiene invece che il provvedimento in questione avrebbe forza di giudicato, opponibile all’amministrazione, perché sarebbe scaturito da procedimento in contraddittorio, concluso con una decisione che si impone su contrapposte posizioni di diritto soggettivo. Ma, parlando seriamente, dov’era, nel caso di Eluana, il contraddittorio e dov’erano le contrapposte posizioni di diritto soggettivo? Tutti sanno che, in ogni passaggio giudiziario di questa vicenda, il curatore speciale, nominato proprio per dare spazio a interessi divergenti rispetto a quelli del tutore (il padre), ha sempre appoggiato tutte le scelte di quest’ultimo. Ed è allora paradossale richiamare quel finto contraddittorio per giustificare l’effetto conformativo sull’amministrazione della decisione della Corte d’appello! Inoltre: secondo il TAR, neppure può ammettersi, nella vicenda, un rifiuto dei medici a conformarsi alla richiesta del tutore, richiamandosi all’obiezione di coscienza, poiché – dice testualmente la sentenza – nessuna legge oggi esplicitamente disciplina “modalità e limiti entro i quali possono assumere rilevanza i convincimenti intimi del singolo medico”. E’ un soprassalto di legalità tradizionale che va benissimo. Peccato che, allo stesso modo, nessuna legge oggi esplicitamente disciplini modalità e limiti entro i quali un malato possa esprimere le proprie volontà di fine vita, eppure si sono trovati tanti giudici e tante sentenze pronti a ricostruire per via pretoria una regolamentazione tanto delicata.

Verrebbe da dire che, forse, anche qui hanno avuto peso i “convincimenti intimi” di chi doveva giudicare…

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