Assistiamo alla pretesa della Ue, come dimostra la risoluzione del 14 gennaio scorso, di estendere il controllo comunitario alla tutela dei diritti dei singoli negli Stati membri. E di vigilare sul rispetto dei diritti nelle non meglio specificate “istituzioni chiuse”: famiglia compresa. «Pare di assistere ad un’“offensiva” della burocrazia europea – dice Paolo Carozza, presidente della Commissione interamericana dei diritti dell’uomo e docente di diritto internazionale nell’Università di Notre Dame (Usa) – che è anche il tradimento di quanto c’è di buono nella sua cultura millenaria».
Dal punto di vista di un osservatore americano, che impressione fa l’enfasi che sta assumendo il discorso sui diritti nell’Unione europea? È una tendenza generale o è particolarmente accentuata in Europa?
Dal punto di vista non solo statunitense, ma di un osservatore internazionale dei diritti umani, devo dire che nel mio lavoro mi imbatto in fatti e problemi legati ai diritti umani che, là dove questi vengono negati, toccano le questioni decisive della dignità umana. Ma da quello che leggo nelle risoluzioni del Parlamento europeo – come quella che lei mi ha citato – è come se mancasse la coscienza più acuta di una certa realtà.
A cosa si riferisce?
Parlo di violazioni non solo in termini di numeri ma anche di particolare gravità. Di quelle che si chiamano in inglese gross violations, per esempio nel caso di governi che usano la repressione come politica sistematica. Questi sono problemi che toccano gli interessi realmente primari delle persone. In Europa pare di assistere ad una “offensiva” della burocrazia europea, dalle conseguenze non meno importanti ma più sottili. Un attacco che non viene dai popoli, dalla gente, ma da una certa componente burocratica del governo europeo che ha assunto già da qualche anno un ruolo di primo piano nell’elaborazione della politica europea.
Stiamo parlando di una risoluzione del Parlamento europeo che rimprovera agli Stati di sottrarsi al controllo comunitario in materia di diritti dell’uomo, ed esprime preoccupazione per la tutela dei diritti dei singoli in quelle che vengono definite “istituzioni chiuse”.
Mi sembra un tradimento della tradizione europea, di quella parte buona di sé che l’Europa ha dato al mondo e che dovrebbe continuare a dare. Una riduzione dei diritti umani e della dignità umana ispirata da un individualismo estremo. È proprio questo individualismo che non mi sembra far parte dell’eredità buona della tradizione europea. Negli Stati Uniti l’eccesso di individualismo è uno dei rischi della nostra cultura e della nostra democrazia, e quindi del nostro approccio ai diritti. Per questo abbiamo sempre guardato all’Europa come ad un contrappeso, come alla memoria storica delle dimensioni più solidali e comunitarie della vita umana. Per questo vedere l’Europa che sta cercando di irrompere e intromettersi in ogni comunità sociale e intermedia tra l’individuo e lo Stato, è assistere al tradimento di uno degli elementi più importanti della cultura europea per il resto del mondo.
Lei trova dunque una contraddizione tra il deposito originario dell’Europa e una certa sua giurisprudenza?
Sì. Nell’Ue, per come si è sviluppata negli ultimi anni, la politica ha abbandonato le questioni più fondamentali, e la burocrazia ha tentato di sostituirsi alla vita sociale delle persone; ovvero, ha tentato di sostituirsi proprio a quella vita che interessa maggiormente i cittadini nell’aspetto materiale e sostanziale dell’esistenza, e nelle decisioni sul loro futuro.
Quali sono a suo avviso i diritti umani che avrebbero bisogno di maggiore attenzione e che sfuggono alle agende delle istituzioni competenti?
Sono quelli che aiutano le persone e i gruppi sociali a partecipare in un modo più profondo alla vita della società: innanzitutto i diritti riguardanti l’educazione, i diritti di partecipazione politica, di espressione e associazione, che creano un ambiente di libertà ma anche di responsabilità per l’altro. Mi pare invece che l’approccio del Parlamento europeo sia quello di sostituire la libertà della società e di decidere al suo posto che cos’è il bene dell’uomo, cioè di che cosa l’uomo ha bisogno. Ma questo è ingiusto, perché ciò che non viene da una scelta e non viene da me non può costituire il mio bene. Quello che definisce il mio bene è quello che io faccio da me e con quelli che sono in comunità con me; nessuno lo può fare per me, al mio posto.
Il Parlamento europeo intende vigilare sul rispetto dei diritti nelle “istituzioni chiuse”. Esiste una preoccupazione simile negli Stati Uniti?
Sì, perché si tratta di una tentazione insita nella vita moderna, non solo europea. Però negli Usa questo fenomeno lo si vede molto meno tradotto in una politica del diritto, perché finora abbiamo conservato alcune protezioni strutturali che limitano fortemente l’intervento delle istituzioni politiche nella vita sociale, nelle famiglie, nelle scuole e nei gruppi religiosi. Il pluralismo sociale risulta più protetto dai limiti strutturali che abbiamo posto all’azione del governo: il federalismo per esempio è uno di questi.
Nel documento approvato il 14 gennaio da parte del Parlamento europeo si coglie una certa sfiducia nella capacità degli Stati nazionali e dei governi locali di tutelare i diritti fondamentali. Secondo lei c’è una dimensione ottimale per la garanzia dei diritti? È più efficace il lavoro di organismi internazionali o di quelli nazionali e regionali?
L’esperienza dell’Europa dimostra che c’è bisogno di tutti e due. Le istituzioni internazionali per la tutela dei diritti, della dignità dell’uomo, della democrazia, non sono nate semplicemente da un’ideologia ma da un’esperienza concreta, quella di Stati nazionali che non sono riusciti a mettere in atto le loro responsabilità fondamentali. Ma col passare del tempo hanno manifestato la progressiva tendenza a integrare gli ordinamenti preesistenti senza più corrispondere allo scopo originale e dando luogo a sviluppi contrari all’idea di sussidiarietà. Questo approccio ai diritti fondamentali schiaccia ogni differenza eccetto che a livello dell’individuo. Mentre proprio l’idea di sussidiarietà, come unità nella diversità, fa parte del patrimonio originario dell’Europa.
Si è osservato che la legislazione europea riformula, in termini diversi, i contenuti che la tradizione ha espresso nel modo che conosciamo. Non si parla più, per esempio, di diritto alla vita o alla maternità, ma di diritto alla salute riproduttiva. Risulta difficile, tuttavia, dare a queste formulazioni un riscontro nella nostra esperienza di persone realmente esistenti. Si è parlato, a questo proposito, di nominalismo. Il diritto non deve più esprimere le istanze che definiremmo naturali, e che sono depositate nella vita dei popoli? Il termine “naturale” ha ancora qualche significato oggi?
L’idea di una natura che fa valere dal suo interno un significato si è svuotata. La si può ancora utilizzare: a patto, però, di ritornare in continuazione a esplorare lo spazio che sussiste tra i principi connaturati e generali della vita umana e l’esperienza umana concreta. Di ricondurre, in altre parole, i primi a quest’ultima. Il problema si presenta quando si parla di diritti naturali e di diritti umani solo a livello astratto e si perde il fatto che essi dovrebbero essere rappresentazioni di quello che le persone provano e che corrisponde ai loro desideri e alla loro vita. Si può parlare della certezza naturale della dignità umana, rendendosi conto però che alla fine la dignità è vissuta in una vita concreta. Uno può dire di amare, e può dire di amare l’umanità, ma se poi odia le persone?
Secondo lei la riformulazione dei diritti – o la promozione di nuovi diritti – che viene fatta in ambito europeo quali possibilità ha di interferire negli ordinamenti degli Stati e con quali conseguenze?
Per gli esempi concreti lascio il campo agli esperti italiani di diritto comunitario. Ma direi che una delle condizioni necessarie perché questa interferenza da parte delle istituzioni comunitarie vada a “buon” fine, è una certa indifferenza da parte dei popoli. Non c’è semplicemente l’imposizione da parte di una burocrazia: essa necessariamente riempie un vuoto. Se la gente è soddisfatta di una Unione europea che dice semplicemente “aumentiamo i livelli economici e materiali dello spazio europeo”, se questo basta a soddisfare le esigenze della vita sociale della gente, allora non importa quali sono o saranno le forme del diritto e della sovranità, perché l’Ue potrà fare quello che vorrà. Un errore da evitare è quello di limitarsi ad un’opposizione ideologica del tipo: vogliamo la sola sovranità italiana, no all’Unione europea. Equivarrebbe ad una resa incondizionata. Serve invece una politica che si assuma la responsabilità di rappresentare e tradurre in progetti le esigenze fondamentali della persona e dei corpi intermedi.