Da qualche settimana sulle pagine dei principali quotidiani italiani compaiono con una certa frequenza ampi servizi sulla “crisi dei professionisti”. Alcuni di questi quotidiani nella versione online hanno addirittura dedicato al tema dei veri e propri “forum” per sensibilizzare il pubblico su quello che viene ritenuto uno dei risvolti più significativi dell’attuale situazione di difficoltà economico finanziaria.
Tra le professioni più colpite dalla crisi figura senz’altro quella dell’avvocato, al punto che alcuni giovani professionisti, intervenendo nei forum a loro dedicati, hanno addirittura ipotizzato che anche per gli avvocati che prestano la propria attività all’interno di studi legali di grosse dimensioni, il governo dovrebbe introdurre forme di aiuto temporaneo analoghe a quelle previste dagli ammortizzatori sociali in favore dei lavoratori subordinati.
Si tratta evidentemente di un paradosso, e come tale va considerato – chi esercita una professione intellettuale sceglie consapevolmente di operare in piena autonomia e libertà, godendo del privilegio di simile scelta, ma nel contempo accollandosi il rischio che la propria attività possa anche fallire –, ma non vi è dubbio che la situazione di grave criticità lavorativa ed economica nella quale versano numerosissimi studi legali rappresenti ormai una realtà alla quale la recente crisi finanziaria ha dato definitivamente risalto.
Tuttavia, individuare nell’attuale situazione economica la causa unica (o principale) dei mali che affliggono l’avvocatura sarebbe fuorviante e riduttivo. Altre, ben più profonde e radicate nel tempo, sono le cause della crisi della professione forense. Si stima che all’inizio degli anni novanta il numero degli avvocati fosse pari ad un quinto di quello attuale (circa 200mila iscritti all’Albo), e già a quell’epoca qualcuno sosteneva che gli avvocati fossero troppi. Da allora l’assenza di vincoli meritocratici e di meccanismi di selezione, e l’incapacità degli Ordini di esercitare un reale controllo sul rispetto delle norme deontologiche da parte dei professionisti, ha consentito che un numero sempre crescente di giovani laureati accedesse alla professione forense, talvolta “scelta” quale semplice ripiego di fronte all’assenza di altre occupazioni, fino a raggiungere nel giro di un ventennio la cifra stratosferica che oggi rappresenta la categoria.
Una costante assenza di responsabilità ed un’endemica mancanza di visione strategica sul futuro di una delle componenti più vitali della società, dunque, hanno determinato il progressivo ed inesorabile imbarbarimento dell’avvocatura. Non va dimenticato che l’esercizio della professione forense impatta su interessi soggettivi e diritti di rango costituzionale (la tutela della libertà, della proprietà, della famiglia, dell’immagine, ecc.) e che l’avvocato rappresenta un soggetto necessario ed insostituibile nell’esercizio della giurisdizione. Non a caso nel corso di un recente convegno, dedicato ai diversi progetti di riforma del sistema Giustizia, tenutosi al Meeting di Rimini il ministro Alfano ha affermato che, anche laddove il processo penale ed il processo civile venissero drasticamente modificati, in assenza di un’altrettanto radicale riforma dell’avvocatura si correrebbe il rischio di non riuscire a migliorare l’attuale situazione dell’amministrazione giudiziaria. È a tutti evidente, infatti, come proprio il numero sproporzionato di legali rappresenti, tra l’altro, una delle cause dell’incontrollato proliferare di cause e processi, spesso inutili o addirittura temerari, che contribuisce ad ingolfare una “macchina giudiziaria” già di per sé farraginosa e dotata di scarse risorse (si consideri che in Italia il rapporto numerico tra magistrati ed avvocati iscritti all’apposito Albo è di 1 a 40!).
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Il quadro dunque è allarmante, ed è davvero stupefacente constatare come ancora oggi autorevoli opinionisti e rappresentanti di importanti istituzioni pubbliche (vedi le pesanti censure mosse all’attuale progetto unitario di riforma dell’ordinamento forense da parte del presidente dell’Antitrust, Catricalà) in nome di un malinteso liberismo e con il pretesto di favorire una maggiore libertà di scelta da parte degli utenti, invochino il “mercato” quale unico rimedio ad un simile male. Maggiore è il numero degli avvocati – sostengono costoro – e maggiore è la facoltà di scelta da parte del cittadino o dell’ente che necessita delle prestazioni di un legale. L’utente peraltro non dovrebbe temere di imbattersi in legali privi di scrupoli e di competenza, visto che è il mercato ad isolare le “mele marce” ed a premiare gli avvocati meritevoli.
Purtroppo l’esperienza ha mostrato e continua a mostrare oggettivamente il contrario: troppo spesso l’utente non è in grado di conoscere a priori le capacità e le competenze del proprio avvocato e di valutarne l’efficacia delle prestazioni professionali, e men che meno è in grado di avvedersi se si tratti di professionista serio e scrupoloso ovvero pronto ad approfittare del bisogno del proprio cliente. Questa purtroppo – a dispetto di quel che sostengono i propugnatori delle infallibili virtù del libero mercato – è la triste realtà che si è costretti a constatare.
Occorre, viceversa, ridurre drasticamente il numero degli avvocati, garantendo per il futuro che possano accedere alla professione forense soltanto coloro che, dopo il necessario percorso formativo iniziale, dimostrino di avere competenze, capacità e sensibilità adeguate al delicato compito che li attende.
In questa direzione pare muoversi il progetto di riforma dell’ordinamento della professione forense licenziato dal Comitato ristretto della Commissione Giustizia del Senato. Il disegno di legge prevede, tra l’altro, che a rigorose condizioni e secondo modalità da stabilire con successivi regolamenti, l’avvocato possa ottenere ed indicare il titolo di “specialista” nella disciplina praticata in prevalenza, contribuendo così ad impedire che un professionista possa occuparsi, come spesso oggi avviene, di controversie giudiziarie in settori del diritto a lui estranei, con evidenti danni per l’ignaro cliente. In tal modo si darebbe concreta attuazione all’obbligo deontologico di competenza, oggi previsto solo in via meramente teorica.
Il ddl, inoltre, propone una radicale riforma della disciplina dell’accesso alla professione forense, stabilendo che l’iscrizione al Registro dei praticanti sia subordinata al superamento di una prova di selezione su base informatica, e che al termine del tirocinio biennale il giovane aspirante professionista debba superare un nuovo test di preselezione (anch’esso su base informatica) per accedere all’esame finale di abilitazione all’esercizio della professione. È evidente che in tal modo verrebbe disincentivata per il futuro quell’insana prassi che ha consentito sino ad ora a migliaia di giovani laureati di intendere l’accesso alla professione come una sorta di “parcheggio” in attesa di diversa occupazione. Altra norma di rilievo è poi quella che stabilisce l’obbligo per gli avvocati di curare costantemente la propria formazione e l’aggiornamento professionale.
Vi è da auspicare che simile riforma della disciplina della professione forense venga al più presto discussa in parlamento ed approvata.
(Avv. Carlo Tremolada – Membro del direttivo della Libera Associazione Forense)