«Santo subito? No, santo prima!» Deve essere stato questo l’impulso seguito dall’Accademia di Oslo nel decidere l’incredibile attribuzione del Premio Nobel per la Pace al neo-presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Che dire, quando anche i paludati custodi della “saggezza ufficiale” li riscopri in atteggiamenti che sarebbero più consoni alle “groopies” dei gloriosi Rolling Stones o, per lo meno, tipici dei teenagers in urlante estasi ai concerti dei Black Eyed Peas o di Robbie Williams? Come credo molti altri, lì per lì, apprendendo la notizia via mail o sms, ho pensato che qualche geniale hacker alla Jack Sparrow della Rete fosse riuscito a violare il sito dell’Accademia.



E invece no. E proprio vero: dopo le lauree honoris causa ai Rossi (Valentino e Vasco), eccoci ora al primo Premio Nobel attribuito alle buone intenzioni, alla brillante retorica e alla nostra soddisfazione per avere finalmente un presidente degli USA sicuramente più cool di George W. Bush e forse anche di George Clooney. Intendiamoci bene: tutti sentimenti legittimi, tanto quanto la nostra perdurante stima nei confronti del presidente Obama, ma complessivamente tutte ragioni inconsistenti per l’attribuzione di un Nobel.



Che cosa avrebbe (già) fatto di straordinario per meritare un Nobel il simpatico Barack? Avrebbe inaugurato una nuova stagione di multilateralismo, si sarebbe impegnato per la denuclearizzazione, avrebbe riacceso la speranza del mondo. Cioè, in una parola, niente di concreto e, soprattutto, niente di nuovo sotto il sole nella (tradizionale) politica estera americana del dopoguerra. Per cui l’Accademia ha, nella sostanza, dato un premio a chi ha consentito a tutti noi di continuare a credere, con nuovo slancio e nuovo fervore, alle cose che amiamo e in cui crediamo. Cioè ci siamo autopremiati. Perché proviamo sentimenti illuminati e politicamente corretti. Un po’ come festeggiare le nozze d’oro con nostra moglie con 48 anni di anticipo. Così, a mo’ di incoraggiamento e con tanti saluti alla scaramanzia.



Diversi osservatori hanno voluto osservare che questo Nobel, in fondo, costituirà un incentivo e un sostegno per il presidente a proseguire sulla buona strada. Sarà, ma chi scrive preferisce continuare a pensare che mentre “la virtù è premio a se stessa”, parimenti “le strade dell’infermo sono lastricate di buone intenzioni”. Fuor di metafora, finora l’attribuzione del premio aveva seguito grosso modo due criteri.

 

Nei confronti di uomini e donne dotati di potere, giungeva a fronte di passi concreti che aprivano opportunità di pace. Lo ricevettero Sadat e Begin per la pace tra Israele ed Egitto, che trasformò il più importante e potente dei nemici dello Stato ebraico nel primo Paese arabo che ne riconobbe l’esistenza. Tra i presidenti Americani lo ricevette, Theodore Roosevelt, per il ruolo svolto a favore della pacificazione tra Russia e Giappone dopo la guerra del 1905. Lo ricevette Woodrow Wilson, per aver inventato la Società delle Nazioni nel 1919, e per aver portato un rinnovamento epocale nella politica internazionale, illuminandola di idealismo e istituzionalismo quando tutti, ma proprio tutti, ritenevano normale l’imperialismo, la politica delle cannoniere e la diplomazia segreta.

 

Quasi trent’anni dopo il suo pensionamento, lo ricevette anche Jimmy Carter, uno dei più deludenti presidenti degli Stati Uniti, per il ruolo giocato in quell’accordo e per il suo impegno a favore della pace, profuso per decenni, quando era ormai senza potere. Ed è proprio questo il secondo dei criteri fin qui seguiti per l’attribuzione del Nobel. 
Premiare “i senza potere”, coloro i quali con la propria vita danno testimonianza dei valori di pace, libertà, e giustizia, e che da quel premio si spera ricavino il “potere” che non hanno, e vedano perciò incrementata di un po’ di potere l’autorità morale di cui già godono. Si spera, detto semplicemente, che il “potere” del Nobel consenta loro di attrarre nuovi proseliti e nuovi finanziamenti e, anche, possa proteggere le loro vite e le loro opere: è la logica seguita con Marthin Luther King e Rigoberta Manciù, con Nelson Mandela e Andrei Sacharov, con Aung San Suu Kyi, Shiran Ebadi e tanti, tanti altri. Francamente, non pare che il presidente in carica degli Stati Uniti ricada in questa categoria dei senza potere. Il sospetto è che il Comitato per il Nobel abbia voluto “riparare al torto” fatto a Obama dal Comitato Olimpico Internazionale, che ha osato preferire Rio de Janeiro a Chicago come sede dei Giochi Olimpici.

 

Ma su Obama che conseguenze potrebbe avere questo riconoscimento anticipato? Per lui, il premio potrebbe risultare persino controproducente. Innanzitutto sul piano interno, ovviamente. Gli americani non amano che, siano i “non americani” a decretare anticipatamente, e per motivi loro, il successo dei propri presidenti. “È la democrazia, bellezza”, nella forma un po’ naif con cui la interpretano gli americani, per cui tutto quello che può apparire come aura che non deriva dall’investitura popolare è vagamente sospetto. Ma anche sul piano complessivo, questo premio rischia di innalzare ulteriormente le già elevatissime aspettative che il mondo ha nei confronti di questo giovane e talentuoso uomo, le cui eccellenti capacità finiranno con l’essere comunque insufficienti a saltare un’asticella che le nostre attese sopsingono continuamente verso l’alto. Sarebbe stato bello che alla “bravata” dell’Accademia, il presidente Obama avesse replicato con un “beau geste”: non rifiutando il riconoscimento (sarebbe apparso altezzoso), ma chiedendo che la sua consegna fosse sospesa fino a quando, una volta terminati i 4 o 8 anni del suo mandato, potesse andare a ritirarlo con la legittima soddisfazione per aver mantenuto le aspettative e compiuto la sua missione. Ma sarebbe stato forse aspettarsi troppo, già dimostrando di essere finiti nella trappola logica dell’Accademia di Oslo. In fondo è “solo” un premio Nobel, pur sempre un uomo, mica un Santo.