La convenzione del Pd (lasciamo perdere i congressi, che sono, o erano, un’altra cosa) almeno un merito l’ha avuto: ha messo in evidenza più e meglio di quanto era avvenuto in questi mesi che cosa effettivamente divide i due contendenti, Pierluigi Bersani e Dario Franceschini, e qual è realmente il messaggio dell’outsider Ignazio Marino. Sull’argomento si sono spesi fiumi di inchiostro, e non è il caso di tornarci su.



Adesso l’attenzione si sposta tutta sulle primarie del 25 ottobre, ed è su questo che conviene soffermarsi. Anche perché non è affatto scritto che gli elettori delle primarie confermeranno il voto degli iscritti. E nessuno se la sente di escludere che addirittura ne rovescino il risultato.
In molti hanno osservato che il meccanismo di elezione del segretario adottato dallo statuto del Pd su ispirazione di Ceccanti, Vassallo e altri è letteralmente demenziale: D’Alema giura che la pensa così anche il responsabile organizzativo dei democratici americani, ed è verosimile che le cose stiano così. Io, in ogni caso, condivido.



Le primarie hanno un senso e un valore quando si tratta di scegliere il candidato premier, non ne hanno alcuno quando si tratta di eleggere il segretario di un partito.
Nei partiti in cui questa carica è contendibile (non lo è dappertutto: per esempio, non lo è nel Pdl) alla bisogna provvedono gli iscritti, attraverso un percorso che culmina nel congresso.

Nessun partito, sotto nessun cielo, accetterebbe mai l’idea che a decidere chi debba divenirne il leader, e quali debbano esserne gli organismi dirigenti, sia una platea indifferenziata di cittadini, che hanno il solo obbligo di dichiararsi elettori del partito medesimo e di versare un paio di euro: anzi, se è per questo, a una simile idea non si piegherebbero nemmeno una bocciofila o un’associazione di giocatori di zecchinetta.



Soprattutto, nessun partito, sotto nessun cielo, si esporrebbe allegramente al rischio di mettere in aperto contrasto le scelte dei propri iscritti e quelle dei propri elettori: ma sarebbe meglio dire dei propri presunti elettori, perché non ci sono regole che valgano a impedire, nelle primarie nostrane, sconfinamenti, incursioni di altri soggetti politici, pesanti, e magari vincenti, pressioni di gruppi economici, finanziari ed editoriali.

Il perché è presto detto: se il (presunto) partito dei (presunti) elettori rovescia le scelte del partito degli iscritti, quest’ultimo, che in ultima analisi, bello o brutto che possa risultarci, è l’unico partito che c’è, non viene solo esautorato delle proprie prerogative (il che non sarebbe di necessità un disastro), ma esce dalla contesa praticamente dissolto. Con tutte le conseguenze, queste sì tutte o quasi disastrose, del caso. Naturalmente questa, nel caso del Pd, è soltanto una possibilità, ma una possibilità concreta.

E proprio perché si tratta di una possibilità concreta le polemiche sono destinate a farsi, con il passare dei giorni, sempre più roventi, con il rischio, anch’esso assai concreto, che si varchi la soglia di guardia, fino a rendere, domani, assai problematica la convivenza nel medesimo partito dei vincitori e dei vinti: lo scambio di colpi proibiti tra Franceschini e il convitato di pietra D’Alema, o le esternazioni televisive (sempre in chiave antidalemiana e antibersaniana) di Walter Veltroni, cui abbiamo assistito in questi giorni, sono probabilmente solo un’anticipazione di quello che può capitare nelle prossime settimane.

A me ha fatto molta impressione il manifesto fatto affiggere dopo la convenzione da Franceschini, con il suo volto sullo sfondo (una specie di zio Sam) e l’appello agli elettori: “Adesso decidi tu”, come per dire che nei congressi hanno deciso gli apparati, le correnti, i gruppi di potere, i capobastone. Può essere, anzi, è pressoché certo che da molte parti (non dappertutto: so anche di congressi vivaci e affollati) le cose siano andate effettivamente così.

Ma non capita tutti i giorni che un segretario uscente (subentrato, oltretutto, a un segretario dimissionario) faccia simili appelli al popolo, anche perché, onestamente, in un partito a dir poco fluido come il Pd non ci sono quartier generali da bombardare. Se Franceschini lo fa, è perché pensa, probabilmente non a torto, di avere, con le primarie, tutto da guadagnare. Che ci guadagni il Pd è invece, come ho cercato di argomentare, tutto un altro discorso.