Berlusconi querela la “Repubblica” e “l’Unità” per le campagne giornalistiche dedicate ai giri di prostitute che bazzicavano Palazzo Grazioli. Il giornale di Ezio Mauro organizza una manifestazione a difesa della libertà di stampa. Poi viene la sentenza della Consulta sul lodo Alfano, che versa altra benzina su uno scontro politico già infuocato. Il “Corriere” critica il premier, ma De Bortoli finisce per esser accusato da Berlusconi di stare a sinistra. Da qui le severa reprimenda di Eugenio Scalfari contro De Bortoli: caro direttore, cosa stai facendo? Con chi pensavi di avere a che fare? Non hai capito che il Caimano vuole un regime autoritario? E ti permetti pure di dire che il governo ha fatto bene questo e quello? Non è tempo di distinguere, ma di unire le forze. Che delusione, caro direttore.
Per sapere se è a rischio davvero la libertà di stampa, non rimane che chiederlo ai diretti interessati: ai giornalisti. «La libertà di stampa? C’è ed è sana – dice a ilsussidiario.net Pigi Battista, firma del “Corriere” -. Non c’è nessun dittatore che chiude i giornali, che mette i giornalisti in galera e fa leggi per impedire che i giornali possano esprimere liberamente le loro opinioni e la costruzione dei fatti. Sembra tutto molto semplice, ma mi rendo conto che nella febbre di questi giorni può perfino essere un’opinione controcorrente». I toni dello scontro, però, sono esasperati. «D’accordo – prosegue Battista -, ma la libertà di stampa è una cosa seria. In paesi come Iran e Cina non c’è. Ma in Italia non mi risulta che ci siano un Mussolini, uno Stalin o un Fidel Castro che controllano la stampa. E oggi in Italia non c’è nessun Antonio Gramsci».
Anche Oscar Giannino non usa mezzi termini. «Chi ha iniziato la polemica è stato Scalfari. Io la considero falsa e vergognosa e proprio per questo esprimo la mia più incondizionata solidarietà a Ferruccio De Bortoli. Un giornalista di un grande giornale che aspira ad orientare il costume morale di un intero paese, dovrebbe guardarsi dall’emettere sentenze di scomunica morale e professionale contro il direttore del più grande quotidiano d’Italia. E su cose false. No, non vedo proprio chi possa attentare alla libertà di stampa. Sulle cose politiche, poi, si può dire, fare e disfare tutto. Nelle cose economiche, finanziarie e bancarie c’è molta meno libertà: nessuno ti impedisce nulla, ma dopo paghi un conto salato».
Non ci sarà un regime, d’accordo. Però il paese è spaccato in un modo che richiama la guerra civile dei mai rimpianti anni ’70. Lei, Battista, ha scritto che il regime non c’è e che però aleggia il suo fantasma. E allora? «Sì – spiega Battista – ma il fantasma mentale, non il fantasma fattuale. Io parlavo di una doppia proiezione fantastica. Quella della sinistra che grida sempre al regime ogni volta che c’è Berlusconi al governo: lo ha fatto anche nel 2001 e nel 2006, dopo di che si è visto quanto è stato facile rovesciare il despota. Aggiungo: a sinistra non possono però lamentarsi se poi il governo successivo non è stato in gradi di tenere più di un anno e mezzo. Ma dall’altra parte c’è Berlusconi che grida sempre al complotto dei poteri forti: l’idea che ci sia un assedio dei comunisti che vogliono fare un colpo di stato, anche questa è un’alterazione. Anzi, una visione paranoica».
È dalla rivoluzione giudiziaria di Tangentopoli che l’Italia cammina verso la terra promessa di un assetto bipolare che doni al paese la sospirata stabilità politica e la governabilità. In tanti hanno detto di voler fare le riforme istituzionali, rimaste però sempre sulla carta. Archiviate le illusioni bipartitiste, mentre i fautori del grande centro ci provano ancora, il bipolarismo è imperniato sulla figura di Berlusconi. Anche per gli oppositori, che ne sono loro malgrado condizionati. «È la malattia del bipolarismo italiano: gli schieramenti si sono formati contro qualcuno e non mai per qualcosa. Devo dire però che Berlusconi è stato più propositivo della sinistra: fin dal ’94 per esempio ha fatto propria la questione fiscale. L’azione di governo manca di una visione complessiva di lungo periodo, ma sa affrontare le emergenze». Da quindici anni è in atto un referendum giornaliero contro Berlusconi. Come si può uscire da questa contrapposizione ideologica forsennata che pregiudica una politica fatta in modo civile?
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«Non ho una ricetta – prosegue amaro Battista -. Cerco di registrare e di analizzare. Non c’entra l’educazione, e nemmeno l’egoismo, è che non c’è un’idea che dia un minimo di coesione nazionale. Ognuno va per sé. Scontiamo il fatto che non sappiamo da che cosa è nata la Seconda repubblica e qual è il suo vizio d’origine. In realtà è fondata esattamente sulle stesse questioni che ci tengono inchiodati da quindici anni. Non abbiamo fatto noi la rivoluzione di Mani pulite, l’hanno fatta i giudici a cui è stato demandato di fare gli angeli sterminatori per conto di una supposta società civile».
«Sono convinto che ci vuole una riscossa – continua Battista – ma anziché i paroloni servono i comportamenti concreti. Prima di qualsiasi altro discorso, il comune di Roma deve garantire che i cassonetti siano svuotati. Manca un confronto sui temi veri, ecco perché nasce la sfiducia. Occorrono persone che si espongano e giochino la loro reputazione sui problemi reali. Bassolino non solo non si è scusato con i napoletani per il disastro che ha fatto, ma si è ripresentato come se nulla fosse». C’è sfiducia, dice Battista. Non che la sua posizione brilli per ottimismo. Viene da chiedersi che cosa può cambiare le cose, se il paese ha una chance o no. Se la crisi è di ideali e non soltanto pragmatica, di iniziativa politica, non è una serie di leggi o una rivoluzione giudiziaria che può cambiare il paese, ma l’educazione, suggeriamo. «L’educazione? Ci vorrebbe piuttosto una rivoluzione. Ci sono non uno ma due mercati del lavoro, uno degli iper-garantiti, che siamo noi, e uno dei sotto garantiti, di quelli che a trenta, quarant’anni non hanno tutele. Una rivoluzione, sì, contro di noi però». Ma le rivoluzioni sono ispirate dalle idee. Quali mettiamo in testa alla classifica? «Del merito e del talento. Chi merita deve avere una ricompensa, invece oggi i giovani non hanno pressoché nessuna opportunità. Sì, sono pessimista. Il paese ha rivolto a Berlusconi una sorta di ultimo appello: vediamo se ce la fai tu. Se Berlusconi non ce la fa, non finirà il bipolarismo ma ci sarà uno “spappolamento”. Con effetti direi depressivi: ognuno si rinchiuderà là dove sta. Non sarebbe la fine del mondo, perché noi italiani ce la caviamo sempre, ma la fine di questo mondo, del mondo politico che abbiamo conosciuto in questa fase della nostra storia».
L’economista Giulio Sapelli, a proposito della crisi italiana, ha detto che i punti fermi, per chi li sa vedere, ci sono. Il mondo del non profit offre l’esempio di una generosità fattiva e di una capacità di perseguire il bene comune che i politici hanno smarrito. Imparino da quello. «È importante, certo – conclude Battista – ma non ha una funzione di sintesi. La società deve fare la società, non sostituire la politica. Poi c’è la Chiesa». Non è una realtà da guardare? «Dal punto di vista individuale sì, ma non esprime più valori che possono aggregare tutti. È una parte importante della società ma resta una parte».
Oscar Giannino è di altro avviso e parte all’attacco. Per primo viene il bipolarismo malato. «Esistono forze che si oppongono in modo intransigente, fin dall’inizio della lunga transizione italiana, a che un sistema bipolare si traduca in modo coerente in una forma di governo e in una forma stato. Una di queste forze è Repubblica. Il quotidiano-partito di Eugenio Scalfari si è sempre opposto perché è nostalgico di un sistema in cui i migliori dal centro scelgono di volta in volta con chi allearsi: le tecnocrazie, le élites e gli amici delle élites. Lo ha fatto con una battaglia culturale intransigente e coerente che ha utilizzato tutte le armi a propria disposizione. Tutte le volte – prosegue Giannino – che si è arrivati vicini ad una soluzione di tipo diverso – la bicamerale di D’Alema, o la riforma della Costituzione fatta dal centrodestra – quel partito ha fatto prevalere un modello in cui più che il governo è valsa l’interdizione di governo. Ha impugnato le armi del pericolo autocratico, del conflitto di interesse mediatico, dell’inciucio. E le ha usate a costo di spaccare la sinistra, facendo gravare sui leader storici della sinistra accuse indelebili di propensione a mercimoni con Berlusconi e le sue aziende». Eccola, secondo Giannino, la tara ideologica del bipolarismo avvelenato che non si sblocca. «Fino a questo momento ci sono riusciti. E chi riesce a impedire una cosa per quindici anni, molto probabilmente è riuscito a impedirla una volta per tutte».
«C’è un emergenza educativa, eccome se c’è – dice Giannino -. Ma la sua chiave non è prettamente scolastica, cognitiva. Io non parto da questo presupposto, ma da un altro, che riguarda la possibilità di accostarsi, con libera scelta, a una proposta di valori. Su Facebook per i più giovani ogni questione di merito diventa una questione Berlusconi sì-Berlusconi no. Lo vedo nelle università. Gli studenti risentono negativamente di quindici anni di vita italiana nella quale l’autocrate in procinto di fare il colpo di stato del 1922 è sempre dietro l’angolo. Ci sono due, tre generazioni di giovani che hanno iniziato il loro tragitto di cittadini con questo tema ricorrente. Vivono nella costante anteposizione di un’emergenza morale che graverebbe sul paese e dalla quale occorrerebbe liberarlo. E poi ci meravigliamo se imperversa lo spirito malato della scomunica reciproca?».
La situazione del paese è grave, dunque. Ma c’è uno spiraglio. «Una politica al servizio dei valori, che non è la vecchia idea democristiana della politica come servizio; no. Ma il fatto che un politico-persona impregni di sé qualunque azione compia, nella vita privata come nell’ispirare un provvedimento di legge. Questo in Italia si è perso». Chi crede in una politica diversa per i contenuti che porta e per il primato della persona, spiega Giannino, deve instancabilmente continuare a radicare questi valori nel corpo della società italiana. Ma non viviamo di solo compito, fortunatamente, perché «ci sono politici che questi valori già li incarnano. Ci sono nel parlamento, ci sono nei consigli regionali. Li conosco. È vero, ora non sono messi in condizione di poter rivaleggiare per la leadership. Ma quel giorno, prima o poi, verrà».