Suona davvero paradossale che i paladini di una norma cha sanziona l’intolleranza legata agli “orientamenti sessuali” vogliano discriminare, addirittura con l’espulsione dal partito, chi ha un “orientamento culturale” diverso. E sarebbe perlomeno azzardato tentare di giustificarsi dicendo che l’orientamento di Paola Binetti è un orientamento politico che come tale non può discostarsi da quello del suo partito. Davanti, infatti, a posizioni di partito che presentano dubbi di legittimità costituzionale, non potrà mai sostenersi che chi vi si oppone sia un traditore, dovendo piuttosto essere il partito a rivedere le sue posizioni, ove queste non siano in armonia con il dettato costituzionale.



Ora la nostra Costituzione mai prevede l’espressione “orientamento sessuale”, ma stabilisce che tutti i cittadini sono eguali “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3, comma 1). Dunque cosa significa inasprire la sanzione di un reato ove questo venga commesso “per finalità inerenti all’orientamento sessuale” della vittima?



Significa che dinnanzi ai ripetuti e scellerati atti di intolleranza verso gli omosessuali lo Stato reagisce e detta una norma che aggrava la posizione di chi delinque in quella direzione. Almeno questo secondo la vulgata mediatica di queste ore. Ma allora, se così fosse, perché non è stato scritto nella norma che l’aggravante scatta quando il reato sia commesso “per finalità inerenti alla condizione omosessuale” della vittima, rispettando il dettato costituzionale che parla di eguaglianza nelle “condizioni”, e non negli “orientamenti”?

Del resto quali sarebbero poi gli orientamenti sessuali “politicamente corretti”, o meglio legittimi, che giustificano una norma di maggior rigore verso gli aggressori? L’omosessualità pare di sì. E l’orientamento pederastico (cioè verso giovani e adolescenti)? Attenzione, la norma parla di “orientamenti”, non di “pratica”, né di “manifestazioni”, dunque sino a prova contraria anche l’orientamento personale favorevole alla pederastia sarebbe legittimo, ascrivibile nell’alveo della libera manifestazione di pensiero (nonché in secoli di letteratura saffica). E perché tale genere di “orientamento sessuale” meriterebbe una tutela pari a quella degli omosessuali discriminati?



Questa è la grande ipocrisia di una norma che vuol far intendere “omofobia”, ma poi scrive “orientamento sessuale”, estendendo la fattispecie a situazioni diverse, che andrebbero dunque trattate in modo diverso. Come peraltro ci ricorda l’orientamento pacifico della nostra giurisprudenza che sul tema afferma che "la discriminazione […] si deve fondare sulla qualità del soggetto […] e non sui comportamenti. […] In definitiva un soggetto può anche essere legittimamente discriminato per il suo comportamento ma non per la sua qualità di essere diverso" (tale, da ultima, la terza sezione penale della Corte di Cassazione, Sent. n. 13234/2008).

 

Una volta usciti dal dettato costituzionale, che parla come detto di “condizioni” sessuali e non di “orientamenti” sessuali, il dado è tratto: ogni orientamento e, dunque, ogni comportamento sessuale ha pari dignità, anche il più turpe. Ma questo – siamo sicuri – non era nelle intenzioni di chi ha scritto la norma.

 

E allora l’unica strada percorribile era quella di correggerla così da evitare interpretazioni tanto possibili, quanto aberranti. E questo del resto era l’accordo raggiunto tra le parti politiche, che avevano stabilito che la norma dovesse tornare in Commissione. Poi qualcuno ha forzato la mano (poco importa se il PDL non dando certezza del ritorno in aula del provvedimento, o il PD che ha chiesto di votare il testo così com’era), e qualcun altro (Paola Binetti) è rimasto fermo nel ritenere che la norma dovesse essere aggiustata. Chi è allora la vera discriminata in tutta questa vicenda?