Alla Costituente [], quando i democristiani, tramite Giovanni Leone, avanzarono la proposta dell’istituzione di una Suprema Corte Costituzionale, i comunisti misero le mani avanti.
Renzo Laconi pose una chiara pregiudiziale a questa istituzione. Due erano le principali obiezioni.
La prima era che, a suo avviso, sarebbe stato “assurdo delegare il controllo della costituzionalità delle leggi, che saranno domani elaborate dal legislatore ordinario, ad un consesso privo di investitura popolare, quale si vorrebbe fosse la Corte costituzionale”.
La seconda, che la creazione di questa corte di garanzia avrebbe costituito una limitazione della sovranità popolare.
Queste obiezioni vennero riprese immediatamente e sviluppate da un altro Costituente di diverso orientamento politico e culturale, Piero Calamandrei. In particolare, riconobbe che “questo controllo di costituzionalità che il giudice potrà esercitare sulle leggi sarà spesso di carattere politico e non giuridico”.
Il costituente azionista insistette a lungo su questo tasto ribadendo che “questo controllo non sarà soltanto giuridico ma diventerà anche politico”. In ragione di queste obiezioni, Calamandrei, che era relatore assieme a Leone, formulò una proposta di dettato costituzionale che rispondeva alla necessità di eliminare o quantomeno “attenuare il carattere politico del controllo”, di “smorzare questa eccessiva ingerenza politica del giudice, che potrebbe trasformare anche la democrazia in governo dei giudici”.
Ma Calamandrei aggiunse una ulteriore, lucida quanto profetica, osservazione: che con una Costituzione di carattere politico e non solo normativo quale quella che si stava costruendo ed una Corte con il potere di abrogare le leggi, chi avesse in futuro controllato la Corte stessa avrebbe conquistato il potere nel Paese. “Se durante il periodo in cui il fascismo diede l’assalto allo Stato italiano fosse esistita una Costituzione rigida, il fascismo avrebbe egualmente conquistato il potere dando l’assalto, anziché alle Camere legislative, alla Corte di garanzia”.
Propose quindi di fissare una procedura che da un lato lasciasse il giudizio di costituzionalità di una legge alla Suprema Corte, ma che le sottraesse al tempo stesso il potere di abrogarla o di renderla inefficace. In caso contrario, si sarebbe investito la Corte di un potere legislativo – pericoloso in ragione della mancata investitura popolare della Corte stessa – sovrapposto a quello del Parlamento. E così, nel suo progetto, prevedeva questo testo:
«La decisione della Corte costituzionale a sezioni unite, che accoglie l’impugnazione ha efficacia meramente dichiarativa della incostituzionalità della legge, ma non può abrogarne né sospenderne l’efficacia.
Il Governo, appena informato della dichiarazione di incostituzionalità, prende l’iniziativa di proporre alle Assemblee legislative con procedura di urgenza una legge abrogativa o modificativa della legge dichiarata incostituzionale; la stessa iniziativa può essere presa direttamente dalle Assemblee.
Qualora tale proposta non sia approvata, le stesse Assemblee legislative dichiarano sospesa l’efficacia della legge dichiarata incostituzionale, la quale da quel momento ha lo stesso valore di una proposta di modificazione della Costituzione, da sottoporsi in via di urgenza al procedimento stabilito per l’approvazione di tali proposte».
[1] Per la documentazione, si vedano i resoconti nn. 17 e seguenti dei lavori della Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Seconda Sottocommissione (Seconda Sezione). Da questi stessi documenti sono tratte le citazioni nel testo.
I comunisti, successivamente, attenuarono la loro posizione, e comunque non insistettero, accontentandosi di ottenere la caratteristica di “rigidità” della Costituzione, insieme al divieto sub specie aeternitatis del ristabilimento della monarchia e della ricostituzione del partito fascista.
Calamandrei non l’abbandonò, certo della sua previsione che, in tempi normali, sarebbero sorti inevitabilmente conflitti tra la Corte costituzionale e il Parlamento. L’invasione del campo parlamentare da parte dei giudici costituzionali era, per il grande Costituente, una pericolosa sottrazione di potere non appena all’organo legislativo, ma all’unico detentore della sovranità, il popolo. Calamandrei identificava popolo e Parlamento, in quanto questo era l’unico organo espresso direttamente dal popolo stesso con le elezioni. E, infatti, dopo aver formulato la sua proposta nella Sottocommissione, la commentava in modo secco e lapidario: “In sostanza, in questi conflitti tra la Suprema Corte costituzionale e l’organo legislativo l’ultima parola rimane sempre a quest’ultimo, cioè al popolo sovrano”.
I democristiani, che non avevano mai avuto esperienze di Governo nell’Italia unitaria, preferirono seguire quell’impostazione idealistica e teorica elaborata a Camaldoli e non accolsero le ragioni di lucido realismo avanzate da Calamandrei. O, forse, erano comprensibilmente preoccupati di quanto sarebbe potuto accadere nella determinante scadenza elettorale successiva. E il progetto di Calamandrei – contrario anche alla rigidità della Costituzione, preferendo il modello statunitense -, naufragò.
È di tutta evidenza che oggi ci troviamo esattamente di fronte alla situazione prefigurata nei lavori dell’Assemblea Costituente nel gennaio del 1947. Occorrerebbe che il Parlamento riflettesse su quanto è accaduto preoccupandosi del bene comune e della democrazia in Italia.
In questo senso, un accordo ampio per la riforma della giustizia e per la riforma costituzionale, ivi compresa la sostituzione dell’articolo 136 della Costituzione con quello proposto da Calamandrei, costituirebbe una occasione storica per riaffermare con decisione che “il Parlamento è il Popolo”.