Per capire che non siamo alla fine della storia in materia di pensioni basterebbe prendersi la briga di consultare il testo dell’ultimo DPEF, per imbattersi in un grafico estremamente indicativo, soprattutto a paragonarlo con quello classico che è stato usato dal 1995 ad oggi per evidenziare l’andamento della spesa pensionistica nel prossimo mezzo secolo.



Fino a pochi mesi or sono la rappresentazione politicamente corretta era la seguente: l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil toccherà il suo picco (a livello del 16-17%) intorno al 2035 (quando arriverà l’ondata dei baby boomers), poi, intorno al 2045 la percentuale fatidica scenderà intorno al 14% come era più o meno all’inizio, grazie alle riforme degli anni ’90. A lungo le cronache hanno parlato del grafico virtuoso (contenuto nel patto di convergenza per l’ingresso nel club dell’euro) avvalendosi di una metafora: la gobba.



Ora però – ad osservare il nuovo grafico – il dromedario è divenuto un cammello, in quanto di «gobbe» ce ne sono almeno due e la prima si presenta a partire dal 2010 ,quando entro un breve arco temporale la spesa pensionistica crescerà di un punto di Pil (portandosi al 15%). Nello stesso tempo, il rientro inizialmente ipotizzato intorno al 2045 si sposterà verso il 2060. Queste considerazioni non tengono conto degli effetti dei provvedimenti adottati dal Governo nel mese di luglio, che hanno sicuramente una caratteristica strutturale specie quello riguardante l’aggancio automatico, a partire dal 2015, dell’età pensionabile agli andamenti dell’attesa di vita.
Mentre alla misura che eleva entro il 2018 l’età di vecchiaia delle lavoratrici pubbliche a 65 anni si attribuisce un risparmio di 240 milioni l’anno a regime, per questo secondo aspetto appena ricordato non sono state ancora formulate previsioni.



Il Governatore Mario Draghi ha dunque ragione quando invita a mettere all’ordine del giorno una riforma delle pensioni che abbia al suo centro l’innalzamento dell’età pensionabile in un quadro normativo caratterizzato da un’effettiva flessibilità in grado di rispondere anche alle esigenze delle persone. Del resto già nei provvedimenti del luglio scorso il Governo ha istituito un meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile all’evoluzione delle attese di vita.

E’ comprensibile che nell’attuale situazione del mercato del lavoro si debba affrontare il problema con prudenza e gradualità, ma solo interventi strutturali sulle pensioni possono consentire quei risparmi necessari ad avviare una riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche del lavoro. A fronte della sollecitazione del Governatore si sono avute le reazioni che ci si poteva aspettare.

 

Contrari i sindacati; contrariato il Governo; entusiasta l’opposizione, quella stessa che a luglio aveva criticato i primi importanti interventi del Governo nel senso giusto. Sarebbe il caso di abbandonare i comportamenti tattici e affrontare il problema delle pensioni con cautela, gradualità ma anche con determinazione lucida e serena.

 

Il sistema pensionistico deve porsi alcuni problemi essenziali: garantire nel sistema contributivo un pensionamento unificato per genere e tipologia ma flessibile, in un range compreso tra 62 e 67 anni correlato ai coefficienti di trasformazione in chiave di disincentivo/incentivo; prevedere a favore dei nuovi occupati una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale che faccia da piede ad un secondo livello contributivo dotato di un’aliquota uguale per tutti i tipi di lavoro e più bassa di quella attualmente prevista per i dipendenti e i parasubordinati.

 

In questo modo si abbatterebbe il divario previdenziale che è uno degli elementi del dualismo del mercato del lavoro e si contribuirebbe ad assicurare ai giovani un trattamento pensionistico più adeguato di quello in cui possono aspirare con le regole vigenti di un sistema pensionistico, impostato dalla riforma Dini del 1995 in modo assolutamente privo di elementi solidaristici.