La proposta del viceministro Adolfo Urso ad Asolo, di istituire un’ora di religione islamica facoltativa, nelle scuole pubbliche e private, non può, di per sé, al di là della dialettica politica che l’ha motivata, essere rifiutata. Gli studenti musulmani, come ha dichiarato il cardinale Renato Martino, presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la pace, “se scelgono di conservare la loro religione hanno diritto ad istruirsi nella loro religione”.



Lo stesso diritto che la Chiesa reclama per sé, quello dell’insegnamento del cristianesimo cattolico nelle scuole italiane, non può essere negato ad un’altra posizione religiosa, qualora essa lo reclami dimostrando di averne i requisiti. In primis un numero sufficiente di alunni per classe che ne faccia richiesta, e questo all’interno di un quadro regionale e nazionale che veda una percentuale significativa di tali domande.



Il problema, comunque, non riguarda il principio ma la sua applicazione. Attuare quanto richiede l’on. Urso non è semplice, richiede una serie di condizioni. La prima, non scontata, concerne il gradimento della proposta da parte degli stessi islamici. In Gran Bretagna, tanto per fare un esempio, il Consiglio musulmano ha chiesto che fosse riconosciuto il diritto dei musulmani ad applicare nella suola statale la morale islamica.

Il problema riguardava essenzialmente il pudore. Ciò implicava il diritto, per le donne, al velo, a non partecipare all’educazione fisica, la separazione dei sessi a scuola. Tra le richieste non figurava quella dell’insegnamento della dottrina islamica nella scuola pubblica, fuori dalla moschea.



Per questo, come ha opportunamente fatto rilevare Massimo Livi, demografo e senatore del Pd, non è detto che gli islamici che vivono in Italia abbiano desiderio di veder praticato l’insegnamento del Corano nelle scuole pubbliche. Certamente non desiderano che tale insegnamento avvenga fuori dal controllo della comunità religiosa. In Italia l’insegnamento della religione cattolica avviene, come sappiamo, sotto la guida della Cei, la Conferenza episcopale. Per l’Islam non è così. Gli immigrati, provenienti da paesi diversi, esprimono tradizioni diverse e diverse letture dell’Islam.

 

Ciò fa sì che non vi sia (ancora) una vera Consulta islamica nazionale, capace di unificare le varie anime dell’Islam e tale da funzionare come organismo analogo alla Cei. In mancanza di esso la prospettiva di un insegnamento scolastico della religione, sottratto al controllo delle moschee, susciterebbe, inevitabilmente, la reazione degli islamici ortodossi.

 

Oltre a ciò un problema non secondario è dato dal reclutamento degli insegnanti. I docenti di religione devono, in Italia, seguire un determinato iter scolastico per poter accedere al loro insegnamento. Ciò presuppone la costituzione di un iter parallelo per il futuro docente della religione islamica , iter che, al momento, non esiste.

Né esiste l’istituzione che dovrebbe abilitare a tale insegnamento. Il nuovo docente non può essere, infatti, un semplice “imam”. La sua figura deve godere di un riconoscimento pubblico, sia da parte di una ipotetica Consulta islamica nazionale, sia da parte dello Stato.

 

Come si vede non è in discussione il principio, vale a dire il diritto all’insegnamento della religione islamica nelle scuole, ma la sua esecuzione. I musulmani, in Italia, non hanno ancora un organismo comune che possa garantire, di fronte allo Stato, l’affidabilità dei docenti. E, in secondo luogo, non possiedono luoghi di formazione, legalmente riconosciuti,che abilitino a tale insegnamento. Per questo l’attuazione di un principio giusto richiederà ancora molto tempo.

Leggi anche

SCUOLA/ Quei giovani ubriachi, "persi" tra divieti e felicità (che manca)SCUOLA/ Chiosso: senza regole avremo solo figli infeliciSCUOLA/ Attenti al "brutto sogno" di Elena Cattaneo, la scienza non è tutto