Hamid Karzai non ce l’ha fatta: le presidenziali dello scorso agosto non gli hanno dato i voti sufficienti, cioè il 50 per cento più uno, a garantirgli la vittoria al primo turno. Dovrà quindi andare al ballottaggio con lo sfidante Abdullah Abdullah. Il risultato negativo per Karzai era nell’aria, ma a confermarlo è la Bbc, che cita funzionari afghani della Commissione Reclami elettorali, quella predisposta ad accertare la regolarità delle elezioni. La Commissione avrebbe trovato “prove chiare e convincenti di brogli”, e invalidato, di conseguenza, i risultati di più di 200 seggi in tutto il paese. L’Onu conferma. Ora i risultati della Commissione reclami devono essere validati dalla Commissione Elettorale Indipendente, un organismo afghano considerato vicino a Karzai che ha gestito le elezioni, ma il ballottaggio pare l’unica alternativa per non aumentare ulteriormente l’instabilità del paese. Toni Capuozzo è appena rientrato in Italia dall’Afghanistan.



Il responso sulla discussa pagina delle elezioni presidenziali di agosto è definitivo: Karzai non ha raggiunto il 50 per cento dei voti e il ballottaggio con Abdullah pare ormai inevitabile. Qual è la sua impressione di ritorno dall’Afghanistan?

Accettare e ammettere che ci sono stati dei brogli è una scelta coraggiosa da parte della comunità internazionale, che ha voluto queste elezioni ma che non sono andate come sarebbero dovute andare. Allo stesso tempo è inutile nascondersi che questo è l’esito di un certo machiavellismo all’interno della stessa comunità internazionale. Ora non resta che fare i conti col risultato: in altre parole, teniamoci stretto l’unico interlocutore che abbiamo.



Ma il ballottaggio apre dei rischi?

Rimangono tutti i rischi legati al fatto di avere una dirigenza politica priva di un riconoscimento che viene dalle urne in modo trasparente. L’Afghanistan è un paese in cui la situazione si evolve giorno per giorno ed è difficile ora valutare le conseguenze anche nel breve termine di un prossimo ballottaggio. Ma le premesse per una ulteriore fase di instabilità, se vogliamo trovarle, ci sono tutte.

L’esercito pakistano ha lanciato una massiccia offensiva contro i talebani presenti nel sud Waziristan, nella parte occidentale del paese al confine con l’Afghanistan. Quest’operazione potrà fugare una volta per tutte le ambiguità che gravano sul ruolo del Pakistan e sulla condotta di Islamabad?



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Purtroppo no: il Pakistan rimane l’anello debole dell’intera area. Dopo l’operazione di settembre dell’esercito pakistano nella Valle di Swat, roccaforte dei guerriglieri islamici, si pensava debellata la presenza di formazioni terroristiche, ma passata l’offensiva il pericolo è tornato con la stessa virulenza di prima. In Pakistan assistiamo ad un “piccolo” gioco, estremamente complesso, difficile e pericoloso, che non dà segno di sbloccarsi. E l’attentato di dieci giorni fa all’ambasciata indiana di Kabul, con l’India che ritiene che dietro l’attacco suicida ci possano essere i servizi pakistani, o almeno una parte di essi, ne è la prova.

 

È illusorio sperare di avere finalmente un Pakistan collaborativo e bonificato?

 

L’esercito e l’intelligence si danno da fare per soddisfare le pressanti richieste internazionali, degli Stati Uniti in particolare, che continuano ad aiutare, incitare e a spingere. Ma ci sono nello stesso tempo e a volte con gli stessi protagonisti, troppi segnali torbidi che rimettono tutto puntualmente in discussione. Purtroppo non possiamo dare per conquistato l’establishment pakistano ad una lotta trasparente contro il terrorismo, né dare per acquisita l’opinione pubblica pakistana ad una resa dei conti col fenomeno del radicalismo islamico.

 

Come sta lavorando il nostro contingente dopo l’attentato del 17 settembre scorso?

 

Ci si fatti un punto d’onore nel voler chiudere la missione nel modo più onorevole possibile, ma senza sconti. Sono aumentate le pattuglie, è aumentato l’impegno complessivo del contingente. È giusto che sia così, perché l’Afghanistan insegna che se mostri un minimo di timore verrai colpito ancora di più, e non risparmiato. È chiaro comunque che siamo in chiusura di missione. Il primo ottobre abbiamo lasciato la Valle di Musai, ma il corpo di polizia e l’esercito locale troppo deboli e incerti per poter prendere il controllo della situazione. Ci lasciamo dietro un’eredità positiva non molto facile. C’è da sperare che i turchi, gli alleati che subentrano a noi, abbiano la nostra stessa voglia di fare e la nostra presenza sul campo.

 

Cosa pensa delle accuse del Times ai nostri servizi di aver pagato i talebani per evitare attacchi?

 

Innanzitutto è offensivo verso i reparti che hanno prestato servizio sul posto, che hanno svolto il loro lavoro, anche a detta degli afghani, in modo encomiabile. Poi la predica viene da un pulpito sbagliato, perché sono stati gli inglesi ad aver avuto dei diplomatici cacciati dall’Afghanistan per aver intavolato trattative coi talebani. Io invece ho visto nei villaggi del distretto di Surobi i militari italiani occuparsi dei malati, fare visite mediche ai bambini, distribuire generi alimentari. Se i soldi” pagati sono di quel tipo, non c’è nessun mistero. Ma se si intende la transazione sordida fatta di passaggio di denaro al capo talebano, questa è un’accusa falsa e senza pudore.

 

L’amministrazione Usa sta mostrando indecisione sulla strategia per tenere il controllo del paese e riportarlo alla stabilità. Ci sono conseguenze palpabili?

 

Sì e lo si vede in modo evidente dal fatto che prevale il giorno per giorno sull’ottica di lungo periodo. È come quando il capo commessa non ha chiaro cosa vuol fare e quale dev’essere il lavoro dei collaboratori. Questa mancanza di chiarezza sulla strategia da adottare è percepita dagli alleati, dai nemici e dalla popolazione.