Che la Corte costituzionale, nemmeno a troppi giorni dall’avvio delle polemiche sull’annullamento del lodo Alfano, abbia reso note le motivazioni in base alle quali è venuto meno lo “scudo” processuale disposto per il presidente del Consiglio, può aiutare a calmare le acque e a ristabilire un clima più obiettivo in cui inquadrare tutta la vicenda.



Intanto, quel che è certo, se mai fosse stato dubbio, è che il regime previsto dal lodo Alfano è venuto definitivamente meno per due ragioni: perché dispone una posizione particolare di alcuni soggetti di fronte alla giurisdizione (art. 3); perché un regime del genere avrebbe dovuto essere introdotto con legge costituzionale (art. 138).



Detto questo cominciano i problemi. Perché se è vero che il lodo Alfano è incostituzionale per violazione degli articoli 3 e 138, è anche vero che questi articoli stavano dove stanno – e cioè nella Costituzione – ancora nel 2004, quando la Corte si era pronunciata sull’ancora più incostituzionale lodo Schifani che diceva le stesse cose del lodo Alfano, ma in modo diverso e più grave.

E questi articoli stanno dove stanno da quando è stata approvata la Costituzione. E cioè, più o meno, da sessant’anni.

Qui non vale obiettare come si fa nella motivazione della sentenza che, nel 2004, e cioè al tempo del primo lodo, la Corte non potesse dire che deroghe così profonde al regime processuale comune vanno introdotte con una legge costituzionale. Basta prendersi la briga di andarsi a rileggere la sentenza del 2004 n. 24 della Corte, per trovare scritto che, secondo il Tribunale di Milano, il lodo Schifani sarebbe stato adottato “in violazione anche dell’art. 138 della Costituzione, disposizione questa che il remittente non indica nel dispositivo dell’ordinanza, ma che cita in motivazione ed alla quale fa implicito ma chiaro riferimento in tutto l’iter argomentativo del provvedimento” (punto 1 del Considerato in diritto). Che poi la Corte in quella occasione non abbia voluto pronunciarsi sul punto, preferendo annullare per altre ragioni, è perfettamente lecito. La Corte quando motiva deve inseguire equilibri difficili a raggiungersi. E si può capire.



Ma deve essere chiaro che in quella occasione altrettanto lecito sarebbe stato per la Corte pronunciarsi dicendo una volta per tutte che le leggi del Parlamento che vogliano introdurre eccezioni a norme costituzionali vanno chiamate con il loro nome: e cioè leggi incostituzionali.

Una scelta del genere avrebbe evitato il trascinarsi di una questione che è durata fino ad oggi e che ha finito con il produrre polemiche su polemiche.

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Basta guardare la cronaca politica degli ultimi giorni. Subito dopo la decisione il Governo (e la maggioranza) lamentano di essere stati tratti in inganno dalla Corte e che una Corte politicizzata avrebbe cambiato opinione dal 2004 ad oggi. La Corte, nella motivazione di ieri, risponde, nel suo linguaggio, che sulla questione dell’art. 138 non si era pronunciata e che quindi, in realtà, non avrebbe cambiato opinione: argomento convincente in un’aula universitaria, meno su un giornale. Dal canto suo il Governo annuncia un programma di riforme. La magistratura insorge a difesa preventiva  della Costituzione.

Viene da chiedersi se tutto questo si sarebbe potuto evitare. E, in subordine, viene da chiedersi se sia poi vero che una Corte politicizzata avrebbe cambiato giurisprudenza, ingannando Governo e maggioranza.

 

Partiamo da qui. La Corte non è politicizzata. La Corte cambia giurisprudenza quando vuole. Non può farlo troppo spesso e quando lo fa deve farlo a piccoli passi e dando l’impressione di non farlo: ma non c’è dubbio che lo possa fare. Semmai qui, ad essere onesti, il problema è un altro. È che la Corte nella prima sentenza del 2004 non ha voluto affrontare fino in fondo e chiudere in modo netto una questione che – come tutti problemi non risolti – puntualmente ha finito con il tornarle sul tavolo. E in questa seconda occasione la Corte non ha potuto non dire ciò che, per ragioni sue, aveva voluto tacere la prima volta con l’espediente – tutto tecnico – dei “motivi assorbiti”.

 

Quel che è certo è che mai, sui giornali, si è avuta informazione in tempo reale sulle maggioranze interne alla Corte e che mai i giudici della Corte sono stati classificati sui giornali per opinioni e per provenienze politiche. Né mai sono state rese note dai giornali le proporzioni di voto all’interno della Corte. E questo, non c’è dubbio, indebolisce la Corte rispetto al passato e desta l’impressione che quelle voci che adesso chiedono una riforma del metodo di lavoro della Corte, introducendo la facoltà per i giudici in minoranza di mettere per iscritto le loro opinioni dissenzienti – sul modello di quello che avviene in Germania dal 1970, se non negli Stati Uniti – non siano lontane dal vero. Meglio avere disponibili e per iscritto le opinioni non trasfuse nella sentenza, che doverle ricostruire per sentito dire dai giornali, alimentando ipotesi e illazioni.

 

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Allo stesso modo, leggendo le motivazioni appena pubblicate viene da chiedersi se sia poi vero che la bocciatura del lodo Alfano rappresenti per il presidente del Consiglio e per la sua maggioranza quella sonora sconfitta politica (e giudiziaria) che si è voluto accreditare. In fondo – come puntualmente era stato anticipato dai giornali – lo scudo processuale è stato annullato anche perché, sulla base di una precedente sentenza della Corte (451 del 2005), puntualmente richiamata, quando l’imputato è un parlamentare i tribunali penali sono tenuti a programmare il calendario delle udienze in modo tale da non precludere all’imputato l’esercizio di quelle funzioni che si riconducono al suo ufficio. In altre parole, i processi si possono fare, ma a ritmi concordati con l’imputato. Dunque il lodo Alfano si può annullare anche perché le esigenze che si volevano soddisfare attraverso il lodo annullato erano, almeno in parte, già soddisfatte da una precedente sentenza della Corte. Che qui, con buona pace di tutti, non ha cambiato giurisprudenza.

 

Non sembra un grande successo per coloro che dall’annullamento del lodo Alfano si aspettavano una crisi di governo o la fine giudiziaria della maggioranza. Semmai, lasciando da parte per un momento le sentenze della Corte costituzionale, il vero problema è un altro. Da quando le immunità parlamentari sono state drasticamente ridotte nel 1993, e cioè negli anni di Tangentopoli, il sistema dei rapporti tra politica e giurisdizione si è squilibrato ed è entrato in crisi. Da allora confronto politico e cronaca giudiziaria hanno preso ad influenzarsi a vicenda. Né ci sono segni che si voglia andare verso un riequilibrio spontaneo e responsabile di questi rapporti. Anzi, tutto sembra accelerare ed alzarsi di tono. Tanto è vero che, negli anni, le polemiche si sono spostate dalle aule della magistratura ordinaria a quella della Corte costituzionale.

 

Il che non è un bel segno, se è vero che – come diceva qualcuno – dalla giurisdizionalizzazione dei conflitti politici “la politica non ha nulla da guadagnare e la magistratura ha tutto da perdere”. La cosa divertente è che a dire questo non è stato nessuno coinvolto in Tangentopoli. È stato molto tempo fa, e prima di tutti, François Guizot. Il problema è che lo ha potuto dire solo parecchi anni dopo la fine della Rivoluzione. Prima non lo avrebbe ascoltato nessuno.