Ieri il Capo dello stato ha auspicato che le riforme istituzionali vadano avanti in un clima di rispetto e confronto tra maggioranza e opposizione, senza che «divengano parte di uno scontro politico». Quando si parla di giustizia, però, tutto diventa più complicato. Dopo che la Consulta ha dichiarato incostituzionale il lodo Alfano, Berlusconi ha voluto accelerare la riforma della giustizia, deciso a condurla in porto ad ogni costo. Il governo intende muoversi in tre direzioni: prima la riforma delle intercettazioni e dell’ordine forense, poi il processo penale. Ma non sono solo questi, come è facile immaginare, i punti caldi del fronte giustizia. Ilsussidiario.net ne ha parlato con l’ex presidente della Corte costituzionale Antonio Baldassarre.
Professore, il Capo dello Stato esorta a fare riforme condivise, ma la maggioranza ha annunciato di voler fare anche da sola una riforma della giustizia che attende da troppo tempo.
La neutralità e l’imparzialità della magistratura e l’indipendenza della politica sono uno dei principi cardine delle democrazie moderne ed esigono reciproco rispetto. Lo scontro tra politica e giustizia dura in Italia da troppo tempo ed è un’anomalia che deve in qualche modo essere risolta. Altrimenti rischiamo di scivolare fuori dello stato di diritto.
Il vicepresidente Nicola Mancino ha detto no ad un doppio Csm. È auspicabile secondo lei una divisione del Consiglio come correlato della parità effettiva tra accusa e difesa?
Se si separano le carriere, allora si può dividere anche il Csm. In Portogallo per esempio ci sono due Csm, uno per i magistrati della pubblica accusa e l’altro per i giudici. Ma questo presuppone una cosa ancor più importante emersa nel dibattito degli ultimi giorni: che il pubblico ministero non sia alle dipendenze del ministro della Giustizia e quindi dell’esecutivo, ma sia indipendente. È questa la precondizione fondamentale.
Cosa pensa del correntismo all’interno del Csm?
Non ho mai condiviso la divisione in correnti, che sono state e continuano ad essere politiche e non giudiziarie. Il potere giudiziario non può avere il minimo legame con la politica: la magistratura è un “pouvoir neutre”: un potere, voleva dire Montesquieu, che sta fuori della politica, che invece implica parzialità, e certe volte faziosità. La divisione in correnti è frutto di una malintesa politicizzazione della magistratura ed è uno degli elementi sui quali i magistrati dovrebbero riflettere.
Esiste una riforma in grado di contenere questa deriva politica?
C’è un problema culturale prima che giuridico. Dovrebbero essere i magistrati, in difesa della loro stessa professionalità, a porsi questi interrogativi, e allora credo che sarebbero loro stessi a capire che la politicizzazione non è un vantaggio ma uno svantaggio, che comporta anche danni di immagine e di credibilità: può capitare che un Pm faccia una cosa in perfetta giustizia, ma che questa appaia politicizzata perché egli è legato alle correnti di estrema sinistra. Ma evidentemente sono questioni che in molti non si sono posti perché non sono in grado o non vogliono affrontarle.
Il governo, con un ddl ad hoc, intende riformare il processo penale. È possibile una reale parità fra i Pm e gli avvocati?
Ma una effettiva parità non c’è da nessuna parte. Negli Stati Uniti l’avvocato può fare indagini come fa il Pm, ma quest’ultimo ha persone e strumenti d’indagine forniti dallo stato e che per questo non pesano sulle sue tasche, invece l’avvocato deve attingere alle tasche del cliente. Questo vuol dire che i ricchi possono avere un’ottima difesa e lottare da pari a pari con la pubblica accusa, mentre i poveri no. Una parità presuppone che il Pm sia alle dipendenze del ministro della Giustizia. In America questo sistema c’è ma non penso che sia trapiantabile in Italia, se non al prezzo di avere una giustizia per i ricchi e una per i poveri. Cosa che noi in Italia non tollereremmo mai.
Come accelerare i tempi del rito processuale?
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Il processo civile va avanti sommando carte su carte ed è sufficiente che una parte chieda il rinvio perché i tempi si allunghino all’inverosimile. Per me la soluzione è semplicissima: basta applicare il principio dell’oralità. Si fanno gli atti introduttivi scritti, le parti si scambiano una volta le repliche, dopodiché vanno in udienza e lì si decide. Come avviene in molti sistemi angloamericani.
E il processo penale?
Nel 1989 il cosiddetto codice Vassalli, tentando di importare il modello Usa, fu un pasticcio mal copiato. Meglio scegliere un modello che funziona, come quello americano, basato su una sola udienza in cui si verificano le prove, e sulla base della verifica delle prove si condanna o si assolve, piuttosto che tentare improbabili soluzioni ibride.
La vicenda del lodo Alfano ha riaperto il problema di un filtro tra potere politico e giudiziario. Cosa pensa della vecchia, abolita immunità parlamentare e dell’idea di ripristinarla?
L’immunità ha una profonda ragion d’essere e non è un caso che i Costituenti l’avessero voluta nella Carta. Nel 1993, quando venne abolita, arrivavano richieste per casi clamorosi di reati compiuti ma il Parlamento negava quasi sempre l’autorizzazione. Non c’è dubbio che fosse diventato un privilegio. La si può ripristinare senz’altro, però ci vuole anche un “codice d’onore” dei deputati.
Allora permetta che cambi la domanda. Oggi ci meritiamo l’immunità?
Direi di no. Se dovesse cambiare il costume politico ed esserci una dignità morale che oggi mi pare normalmente non esserci, direi di sì, che dovremmo averla, esattamente come esiste in molti paesi. Ma in molti paesi il codice etico è diverso. È un problema civile, non formale.
Esiste il rischio che l’attuale clima politico, fatto di scontro e di delegittimazione, pregiudichi in partenza l’esito di una riforma importante come quella della giustizia?
Mi piacerebbe rispondere di no, ma temo che risponderò di sì. Riforme del genere si dovrebbero fare con le più ampie maggioranze possibili, ma se la politica è partire lancia in resta contro il nemico, è chiaro che nessuna riforma può essere fatta in modo condiviso. Il paese ha bisogno di tutt’altro, di risultati duraturi e non di parte.
La maggioranza le risponde che è impossibile fare un accordo bipartisan con un’opposizione che al proprio interno ha estremisti come Di Pietro.
Sono d’accordo, ma rimango convinto che in tema di giustizia la maggioranza dovrebbe cercar di costruire un accordo su linee condivise con buona parte dell’opposizione, facendo un’opera capillare di selezione di coloro che sono meno legati a schemi di fondamentalismo giudiziario. Ma ci vorrebbe un clima politico un po’ diverso da quello attuale. Se la situazione rimane com’è, sono abbastanza pessimista.
Si rischia una riforma della giustizia che vale la durata della legislatura?
Sì, o forse anche meno.