I primi passi di Bersani, da segretario del Pd, non sono poi così semplici. A pochi giorni dalle primarie Rutelli e Cacciari hanno attaccato la linea che ha prevalso nel partito, durante la presentazione del Libro “La svolta. Lettera a un partito mai nato”, dello stesso Rutelli. Le critiche senza sconti si sono chiuse con un avvertimento: “o un cambio di rotta, o nascerà qualcosa di nuovo”.
Arturo Parisi, a sua volta voce critica in questo delicato momento del Pd, chiarisce la sua posizione su quanto sta accadendo.
Durante il dibattito che ha accompagnato la scelta del nuovo segretario del Pd lei ha espresso più volte le sue perplessità. Cosa l’ha delusa maggiormente? È mancato un vero confronto?
Un partito dovrebbe essere uno strumento per la formazione della volontà collettiva, che sottintende una condivisione consapevole da parte del più largo numero di persone, almeno nelle scelte più importanti, non solo una macchina per organizzare le elezioni. Guardi, se la parola “congresso” e la parola “partito” conservassero, non dico il significato, ma almeno il sapore che avevano un tempo, al centro delle nostre primarie avrebbe dovuto esserci un esplicito dibattito sulla direzione da prendere. Non è andata così, sia nei circoli, che nella convenzione Nazionale il dibattito è stato bandito per evitare il conflitto. Si è discusso solo di chi avrebbe ottenuto la guida, scegliendo tra bandiere a cui affidare scelte prese “a prescindere”, fino all’esito caricaturale della Convenzione Nazionale.
Cosa intende? Perché decise di non partecipare?
Nella Convenzione 1.000 delegati sono stati portati a Roma per applaudire ognuno il proprio candidato e, tutti assieme, decisioni già prese.
Il risultato finale di tutto ciò è una fotografia accurata di quello che il partito è, non la decisione di quello che vuole essere. Una scelta tra persone definite dai rispettivi passati, piuttosto che dalle loro proposte per il futuro.
Perché poi decise di appoggiare Franceschini?
La scelta che temevo per me obbligata è stata quella del voto bianco, praticamente fino alla fine. Le proposte non erano sufficientemente diverse. Poi un confronto proposto da me e accettato solo da Franceschini e Marino mi ha consentito di scegliere. E così se due anni fa Veltroni che immaginavo all’inizio più vicino finì a essere il più lontano, Franceschini che pensavo più lontano mi ha convinto.
La vittoria è però andata a Bersani, eletto grazie all’appoggio degli iscritti e degli elettori. Come giudica la sua proposta?
In assenza di un confronto e di una chiara proposta, la sua linea è inevitabilmente dedotta dalla posizione di Massimo D’Alema, che è il suo sostenitore più noto e autorevole. Forse l’unica posizione riconoscibile, difesa con coerenza e nel tempo, ma contro la quale mi sono speso assieme a tanti, negli anni dell’Ulivo.
Questa scelta segna un passo indietro sul piano della convivenza tra l’anima cattolica e quella laica e socialdemocratica?
Sono sicuro che Bersani provvederà al meglio ad evitare questo rischio. Il problema non è però nella mani dei leader nazionali, né in quelle di Bersani, né in quelle di Franceschini, ma nel messaggio che promana oggettivamente dall’intero partito. Se il Pd riuscirà a essere un partito veramente nuovo allora sarà la casa di tutti, credenti e non credenti. Se venisse invece percepito come la continuazione di una sola storia e come la casa di una sola parte non ci sarà leadership che potrà tenere. Nessuno ama sentirsi ospite in casa d’altri.
Ma quale modello di centrosinistra ha avuto sin qui maggiore successo? A quale esperienza virtuosa lei preferisce fare riferimento?
All’unica che in questi anni ha funzionato: l’Ulivo, una coalizione stabile di partiti legata da un progetto a tempo indeterminato, non un semplice cartello con un programma a scadenza. Credo in un partito aperto a tutti i cittadini, non un partito di soli iscritti e militanti. Non un partito “di sinistra”, né “di centro”.
A questo proposito, quale collocazione è giusto che abbia questo partito in Europa? Su questo punto è d’accordo con Bersani?
Forse conviene limitarsi a guardare alla posizione attuale. La stragrande maggioranza dei parlamentari europei appartiene al Pse in continuità con la precedente affiliazione dei Ds. La minoranza invece è andata ad abitare nel gruppo socialista ottenendo in cambio l’introduzione di una D, Democratici, nella denominazione del gruppo, pur continuando a far riferimento al Pde, un partitino centrista presieduto da Rutelli. Le sembra che questo sia quel partito unico che avevamo annunciato?
I malumori iniziano a farsi sentire. Prevede qualche imminente scissione?
Il problema non sono le scissioni dei leader, ma l’allontanamento silenzioso degli elettori e a tutto quello che potrebbe succedere se il Pd fosse, o anche solo apparisse non quel partito nuovo che da troppo tempo annunciamo, ma la quarta tappa della storia del Pci, dopo il Pds e i Ds. A questo punto la posizione di D’Alema sarebbe l’unica praticabile, perchè un partito di questo tipo non potrebbe mai contenere la maggioranza più uno degli italiani, e neppure diventare in quanto tale la guida di una coalizione. L’unica soluzione possibile sarebbe perciò il ritorno alla legge elettorale proporzionale, grazie alla quale le maggioranze tornerebbero a essere ipotizzate prima, ma formate solo dopo il voto. In pratica il modello tedesco, che D’Alema sostiene da tempo.
Ha parlato di “allontanamento silenzioso degli elettori”. Quali settori della società civile e quali zone del Paese questo partito deve riconquistare?
Se il Pd vuole essere il perno del centrosinistra in un sistema bipolare, non può che essere aperto a tutti. I pensionati, l’impiego pubblico e il mondo operaio, assieme al prevalere delle zone rosse, connotano ancora troppo la sua matrice sociale.
Il problema principale non è solamente da dove si prendono i voti, ma dove li si vogliono portare. Bisogna avere la capacità di comprendere che il pericolo più grande è la dissoluzione delle istituzioni e del capitale sociale che abbiamo ereditato dalla nostra storia, a seguito dell’immigrazione non regolata, della criminalità organizzata e di quella dei colletti bianchi.
Tornando sulle possibili scissioni, come giudica le prese di posizioni di Rutelli di ieri? Pensa che uscirà a breve dal Partito Democratico?
In qualche modo dal Pd è già uscito. Un problema di Rutelli e comunque un problema di Rutelli.
Preferisce non commentare?
No, dire che il Pd è un partito non ancora nato è difficilmente contestabile. La soluzione è il nuovo partito centrista guidato da Rutelli?
Strano perché Rutelli era bipolarista da candidato dell’Ulivo e bipartitista da grande elettore di Veltroni, onestamente ho difficoltà a riscontrare un filo di coerenza tra le sue dichiarazioni e la sua storia passata.
La realtà è che Rutelli ama giocare alle belle statuine.
Cosa intende?
Quel gioco che si faceva da ragazzi… Ha una grande abilità a farsi trovare fermo, questa volta però si è fatto sorprendere in movimento. Tutti hanno visto che aveva già attraversato il Rubicone.
(Carlo Melato)