Pierluigi Bersani si ritrova una brutta gatta da pelare. Ma lo sapeva benissimo, quando si è candidato alla guida del Pd. Diciamo che forse sarebbe stato meglio per tutti se si fosse candidato prima dell’esperienza Veltroni e della reggenza Franceschini. Ma all’epoca non se la sentì. E D’Alema era contrario. Meglio far toccare con mano a tutti che cosa sia davvero il veltronismo, fu il ragionamento prevalente.



Amaro il bilancio di quell’attendismo. Perché ora Bersani si ritroverà di fronte inevitabilmente l’accusa di tornare a essere il segretario di una riedizione dei Ds. Basta vedere l’immediata reazione di Francesco Rutelli, e il rischio assai concreto che un bel po’ di moderati prendano la porta, in direzione del centro di Pierferdinando Casini, nel calcolo che ormai si tratti solo di aspettare al massimo un paio d’anni, prima che Berlusconi si logori e tutto cambi.



Il fallimento del “nuovo crogiuolo di culture” che doveva essere il Pd, e il suo reimboccare la via di una tradizionale forza socialdemocratica europea – quale l’Italia non ha mai avuto, visto che tra Pci e Psi fu sempre scontro altalenante di massimalismi condivisi o di reciproche scomuniche – affidano a Bersani un compito assai difficile. Perché ha vinto, ma non ha stravinto.

Il che significa che nell’elettorato più immedesimato col progetto Pd un’amplissima fetta proprio non se la sente di dichiararsi improvvisamente socialista. Inevitabilmente Bersani ne dovrà tenere conto, e vedremo se questo non lo frenerà magari anche parecchio, nel dirsi e farsi socialista a tutti gli effetti.



Dal punto di vista del sistema politico italiano, è ovvio che la scelta di Bersani sia più gradita a coloro che vogliono superare in prospettiva il bipolarismo, a tutti quanti sono convinti che esso vivrà solo finché sulla scena ci sarà ancora Silvio Berlusconi. Perché alla banderilla finale piantata nel suo collo e che dovesse portarlo a non essere più il candidato a governare preferito dagli italiani, ritengono, nessuno sarebbe più in grado di catalizzare da solo oltre il 40% del voto degli italiani moderati. E dunque tutto cambierebbe, restituendo ai partiti la scelta di coalizioni tra soggetti realmente diversificati.

Personalmente, ho sempre pensato che il bipolarismo all’italiana – fatto cioè introducendo solo un nome di candidato premier sulla scheda elettorale, ma senza cambiare la Costituzione con una più coerente forma di governo e forma di Stato – sia un pasticcio inevitabilmente destinato a non reggere. A maggior ragione con la vigente legge elettorale, che porta in Parlamento camerieri scelti dai segretari di partito.

Ma detto questo continuo invece a credere che il bipolarismo serva all’Italia: perché “forza” un chiaro mandato a governare che da sempre all’Italia fa difetto, vista la prevalente funzione d’interdizione invece che realizzativa rappresentata dai partiti minori nel nostro paese.
Sta a Bersani, ora, far capire concretamente se ci riproporrà una riedizione dell’Ulivo prodiano da Rifondazione a Casini, e se dunque la vocazione maggioritaria veltroniana è davvero morta una volta per tutte. O se, invece, ha vinto impugnando l’identità socialdemocratica per far appello alle residue forze ex Ds dall’identità più forte di quelle ex margheritiche, ma riservandosi comunque una musica totalmente diversa per l’avvenire dalla riproposizione di ciò che già non ha funzionato, sotto Prodi.

 

Non si capirà certo da qui alle regionali. Nei pochi mesi di qui a marzo, a Bersani tocca solo prepararsi al meglio a reggere botta. Contati quei voti, si inizierà a vedere se sotto la maschera da provinciale piacentino batte l’ambizione di un Blair all’italiana capace di scatenare i Chiamparino e i Cacciari, piuttosto che quella di uno simpatico ma stanco custode di museo, come sono diventati molti leader socialisti nell’Europa odierna.