Come è stato osservato (nell’importante discorso tenuto in Commissione Affari sociali dall’on. Eugenio Mazzarella del Pd il 23 settembre), il passaggio dall’idea di “testamento biologico” a quella di “dichiarazione anticipata di trattamento” – di cui si è discusso in Senato e si dovrà discutere nella Camera – «tende a depotenziare il carattere rigidamente vincolante di una disposizione testamentaria» e a riaprire lo spazio della “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, che un’interpretazione unilaterale delle disposizioni anticipate del paziente veniva a eliminare.
Si cerca così di correggere la visione individualistica dell’autodeterminazione del paziente a favore di una più realistica e coerente considerazione della relazione in cui ogni condizione di cura viene a trovarsi. Su questa linea si è posto anche l’intervento di Angelo Panebianco sul Corriere della sera del 30 settembre, con la ripresa della metafora della “zona grigia” della discrezionalità di giudizio del medico in accordo con il paziente e con i sui famigliari o suo fiduciario, da difendere contro un’eccessiva regolamentazione da parte di una legge dello Stato. La prospettiva dell’“alleanza terapeutica”, terza via tra ”paternalismo medico” e “autonomia assoluta”, è stata rilanciata anche da Riccardo Chiaberge sul Sole-24 Ore del 2 ottobre.
Vi è dunque un concorso a correggere il radicalismo di disposizioni anticipate assolutamente vincolanti per dare spazio piuttosto a una gestione della situazione sanitaria, nella misura del possibile, interattiva e condivisa dagli interessati. Un sicuro passo avanti, che tuttavia lascia nel grigiore dell’indistinzione i criteri della questione essenziale, cioè i limiti della auto- o etero-disposizione della vita dell’assistito. Allargato lo spazio, da quello meramente individuale a quello relazionale, la tendenza è di affidare alla piccola comunità liberale del medico, del paziente (con le sue dichiarazioni anticipate), dell’eventuale fiduciario, dei famigliari il diritto e il compito di decidere delle sorti vitali di chi è nella condizione dello stato vegetativo, avendo come limiti di riferimento la proporzione tra cure e benefici e l’esclusione della soluzione eutanasica (si veda quanto ha scritto Francesco D’Agostino su Avvenire del primo ottobre).
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Ma siamo sicuri che tali due limiti siano davvero rispettabili quando si sostiene insieme l’inclusione, proposta anche dagli interventi citati, dei supporti di sostegno vitale (nutrizione e idratazione artificiali) tra le terapie soggette a valutazione discrezionale, con l’argomento che si tratta pur sempre di trattamento sanitario che, come tale, può essere rifiutato o sospeso? Che questo sia il crinale del dibattito non dipende dall’ostinazione ecclesiastica e di buona parte del mondo cattolico a voler sottrarre a tutti i costi qualcosa alla libera disposizione dei soggetti, ma dal fatto che sulla questione del sostegno vitale si gioca inevitabilmente il senso complessivo della legge e la logica dei suoi possibili sviluppi.
Tutto dipende dal riconoscimento della specificità dello stato vegetativo, che non è malattia per cui vi sia terapia e non è una condizione terminale, ma uno stato di estrema disabilità. Ne consegue 1) che le forme di sostegno vitale non sono proporzionabili a un qualche miglioramento terapeutico, che non esiste, né la loro sospensione è sospensione di una cura in atto, bensì di assistenza; 2) che la decisione su tale trattamento sanitario (non terapeutico) è immediatamente decisione non sul curare o non-curare, ma sul vivere o morire. In altri termini, la decisione non verte su una valutazione di cura, ma direttamente sulla tollerabilità o intollerabilità di una condizione di vita.
Ma allora, perché la motivazione sospensiva del sostegno vitale non dovrebbe potersi estendere a tutte le condizioni in cui si ritenga intollerabile una certa condizione esistenziale? L’affermata intenzione di escludere la soluzione eutanasica inevitabilmente vacilla; e – bisogna ricordarlo – i promotori e gestori del caso Eluana lo sapevano e lo hanno detto.