Il paese attende col fiato sospeso la sentenza della Consulta sul lodo Alfano, per sapere quale sarà il destino della maggioranza di governo. La politica si è fermata, paralizzata dalle possibili incognite che aprono scenari preoccupanti anche per chi la sa lunga, come l’ex presidente Cossiga che vede all’orizzonte la bocciatura del lodo. Del resto è stato lo stesso capo del governo a confidarlo ai suoi, durante l’ultima riunione di Arcore: “stiamo navigando al buio, e può succedere di tutto”.



Ilsussidiario.net ne ha parlato con Giulio Sapelli, economista. Prendendo le mosse non dal tentativo di decifrare gli orientamenti che prevalgono nella Corte, né dalle possibili contromosse di Berlusconi, ma da un pensiero espresso dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, in apertura del Consiglio permanente lo scorso 21 settembre.



Bagnasco ha parlato di un’Italia “attraversata da un malessere tanto tenace quanto misterioso, che non la fa essere una nazione del tutto pacificata al proprio interno, perché attraversata da contrapposizioni radicali e risentimenti”. Alla luce delle ultime vicende del paese, le pare una valutazione fondata?

Assolutamente sì. Mi pare che sia una definizione misurata, drammaticamente misurata. Equilibrata come si conviene ad un pastore della Chiesa. Io sarei stato molto più tranchant, senza il timore di esagerare. Bagnasco parla di malessere, io tante volte ho parlato di malattia. Le nostre imprese sono malate: malate della perdita del senso del lavoro. L’Italia stessa è una grande nazione malata. Mi chiedo, provocatoriamente ma non troppo, se siamo mai stati davvero una nazione.



E dire che ci prepariamo a celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia.

A volte penso una cosa per certi versi terribile, cioè che siamo stati una nazione solo in guerra. Mi è venuto in mente questo durante il mio recente viaggio in Australia. Il massacro subito dall’Anzac durante prima guerra mondiale nella penisola di Gallipoli, sullo stretto dei Dardanelli, diede al paese una sensibilità nuova. Da allora l’Australia chiese di uscire dal Commonwealth. In guerra, volenti o nolenti, gli italiani sono stati nazione.

Lo crede davvero? Sembra però di vivere in un 8 settembre permanente.

Noi, a differenza di tanti altri, non abbiamo interiorizzato la cittadinanza attraverso il formarsi di uno stato di diritto. Nel dopoguerra la nostra industrializzazione è durata neanche vent’anni, abbiamo sepolto la vecchia società per entrare rapidamente in una società di servizi postindustriale. Siamo diventati nazione attraverso il consumo e l’acquisizione di grandi redditi. Questo fenomeno però da una decina d’anni si è fermato, anzi si è invertito perché le risorse sono sempre più scarse. La coesione sociale si è sfibrata, sfilacciata.

Esiste davvero un piano eversivo per far fuori Berlusconi?

Parlare di piano eversivo, e quindi di un progetto consapevole, mi pare eccessivo e lo escludo. Però ci sono grandi pressioni, soprattutto di natura internazionale, su parte delle nostre istituzioni e della nostra classe politica. Basta aprire oggi (ieri, ndr.) il Financial Times: Berlusconi e il lodo Mondadori, con annesse accuse di corruzione, sono in prima e in seconda pagina. Ma dire, come fa il Cavaliere, che questa stampa è di sinistra non ha senso. Rappresenta l’orientamento di una parte dell’establishment internazionale, questo sì.

Ci sono settori della sinistra e del nostro establishment finanziario che sognano una spallata. Chi sono e cos’hanno in mente?

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Un momento. L’establishment è un gruppo di persone che ritengono, e spesso lo sono anche di fatto, di essere quelli che meglio interpretano il bene comune della loro nazione piuttosto che l’interesse particolare. C’è un establishment nel mondo anglosassone, francese e tedesco, ma in Italia no. Da noi non c’è nessun gruppo né economico, né intellettuale né politico che voglia rappresentare gli interessi nazionali. L’Italia non ce la spiega Machiavelli ma Guicciardini: è il culto del “particulare” che presiede alla lotta delle parti. Proprio perché in Italia non c’è un establishment, si scatena la lotta contro Berlusconi.

 

Rimane comunque un aspro scontro politico centrato sulla figura di Berlusconi. Come lo spiega?

 

Perché Berlusconi è l’alieno. Era estraneo ai gruppi di potere che governavano l’Italia quando andò al potere nel ’94 e lo è anche adesso. Ma non è al potere perché è ricco. Berlusconi non è un super ricco come comunemente si crede: è un medio ricco ma con uno sconfinato ego. Ci sono in Italia persone molto più ricche e molto più potenti di Berlusconi, ma non appaiono. Berlusconi ha saputo interpretare e rappresentare il paese. Nel ’94 Gianni Agnelli all’assemblea degli industriali candidò Spadolini alla presidenza del Senato, ma fu sepolto da bordate di fischi. All’uomo più potente d’Italia non era mai successo, qualcosa era cambiato. Lì si capì che i grandi gruppi egemonici che governavano il paese non ne avevano più il controllo. Berlusconi vinse quelle elezioni proprio perché era un outsider.

 

Ma allora se non c’è un establishment nel senso classico del termine, oggi in Italia che cosa c’è?

 

Da un lato c’è un potere allo stato gassoso, informe, policentrico. Tanti soggetti che lottano uno contro l’altro, non si mettono d’accordo e si azzerano a vicenda. Dall’altro ci sono le banche, che attualmente sono il vero potere di questo paese.

 

Non la stampa?

 

Ma no, i giornali chi li legge? La stampa è nei casi migliori un contro-potere, e in quelli peggiori un amplificatore della politica come spazzatura.

 

Oggi siamo all’atto finale del “referendum” pro o contro Berlusconi che ha segnato e segna la vita politica?

 

Non possiamo dirlo. Berlusconi è un innovatore, per primo in Italia ha creato un partito di centro che guarda a destra. Ma rimane un alieno: innanzitutto un alieno rispetto allo stato di diritto, perché continua ad essere a tutt’oggi in conflitto di interessi. Non ho mai avuto un’eccessiva simpatia per l’avvocato Agnelli, ma un Agnelli e un Pirelli hanno sempre avuto il grande merito di non mettersi in politica. Gli imprenditori possono orientarla, certo, fare lobby, ma non mettersi direttamente in politica.

 

D’accordo. Ma Berlusconi ha avuto i voti della maggioranza del paese.  

 

Non c’è dubbio. E le realizzazioni del suo governo rispetto all’ultimo governo Prodi sono sicuramente migliori. Non vorrei essere frainteso: da quando Michael Bloomberg è diventato sindaco di New York, tutto ha funzionato meglio. Però a mio avviso è meglio che i grandi imprenditori non facciano politica. Avviene solo nei paesi sudamericani, che non hanno uno sviluppo istituzionale tra i migliori del mondo, mi pare; ma non in Europa. Nel concetto liberale classico la divisione dei poteri non divide solo quello legislativo dal giudiziario e dall’esecutivo, ma anche quello politico dalla ricchezza.

 

Se no il pluralismo corre dei rischi?

 

Sì, anche se per il nostro povero paese è vero solo in teoria. Dopo la sentenza della Procura di Milano su lodo Mondadori, sfido chiunque a dire che in Italia il pluralismo è a rischio e che c’è una dittatura.

 

Nel nostro paese, qualunque sarà la decisione della Consulta, ci vuole un lodo Alfano o no?

 

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Non credo. Sarebbe un espediente per ovviare all’esasperato tasso di conflittualità. La politica ora è ridotta ad un safari in cui si spara, dentro e fuori il paese, su Berlusconi. Non si spara su De Benedetti, non lo si è fatto su Cecchi Gori, non lo si è fatto con Romano Prodi, anche se Prometeia e Nomisma erano attività economiche di altissimo profitto. È questa l’anomalia. Una vera maturazione del paese richiede di superare e risolvere le ragioni dello scontro.

 

Esiste attualmente un’alternativa politica reale a Berlusconi?

 

Se Berlusconi cadesse per una crisi extraparlamentare il paese entrerebbe in uno stato confusionale e “convulsionale” che potrebbe essergli fatale: per la sua economia e per la sua stessa stabilità morale. Con la vera crisi economica, cioè quella occupazionale, appena cominciata, con migliaia di aziende che a settembre non hanno riaperto, con il terrorismo internazionale alle porte e una decisione da prendere sull’Afghanistan, da dove andarsene sarebbe un grave errore? No, il paese entrerebbe in confusione e solo degli irresponsabili possono volerlo.

 

Meglio il voto a quel punto?

 

Meglio il voto, certamente. Con l’unica condizione che la campagna elettorale non fosse anch’essa un mattatoio. Questo andrebbe chiesto in primo luogo a Berlusconi, perché lui è il premier e chi è più in alto ha più responsabilità degli altri.

 

“Un esecutivo che guardi al bene dell’Italia, un governo del presidente, non politico ma istituzionale”, come ha detto Rutelli?

 

Non scherziamo per favore. Dov’è una figura al di sopra delle parti? Questo paese non ha più i Bucciarelli Ducci e i Merzagora, l’era dei grand commis di stato – quelli veri – è finita da tempo. Ogni governo di transizione sarebbe rischioso. Berlusconi, lodo Alfano legittimo o non legittimo, deve finire la legislatura. Questa è l’unica condizione per non precipitare il paese nel caos.

 

Se la maggioranza ha mostrato grande conflittualità al suo interno, l’opposizione non sta meglio. Cosa pensa della situazione in casa del Pd?

 

Il Pd è in stato confusionale. Un partito fatto di iscritti in cui a decidere in ultima istanza sono coloro che non sono iscritti, è una mostruosità. Dicono di rifarsi al modello americano, senza sapere che i partiti americani sono gruppi d’opinione e non hanno iscritti. Poi un partito in cui un candidato è eletto col 56 per cento, come nel caso di Bersani, di fatto è un partito spaccato. Il Pd mi sembra un caso lampante di diseducazione alla democrazia. I partiti o sono una comunità di destino politico o non sono niente.

 

Professore, mi è parso molto pessimista nel tono e negli argomenti. Nella confusione di oggi, comunque si evolverà lo scenario politico, un italiano chi o che cosa deve guardare per non restare in balia degli avvenimenti? Ci sono dei punti fermi?

 

Deve innanzitutto guardare la Chiesa. In queste circostanze avere una fede, e far valere la speranza che ogni fede autentica porta con sé, è decisivo. Oggi più che mai ci vuole fiducia nella provvidenza, quella di manzoniana memoria. Parlando di politica sembra un messaggio avulso dalla realtà, ma sono convinto del contrario. Chi è cattolico guardi la chiesa cattolica, se uno è musulmano vada nella sua moschea. È la religione il primo fattore che cambiando l’uomo, cambia anche il resto. Poi occorre guardare agli ambiti in cui la gente si impegna con più fervore e più generosità.

 

A cosa pensa in particolare?

 

Al mondo del non profit. Ha risorse umane straordinarie e spero sempre che queste persone, un giorno o l’altro, abbiano voglia di fare anche politica. Sono loro a poter insegnare agli altri cosa vuol dire costruire il bene comune. Poi, e non sembri un’altra follia, ho fiducia nei giovani. Li osservo, molti sono diversi. Sta crescendo una minoranza di giovani interessati, più colti, non fanatici, molto più ricchi di ideali di quelli di vent’anni fa. Ci sono più potenzialità nei giovani di quello che pensiamo, ma per svilupparle servono buoni maestri.