Il Pd entra nelle ultime due settimane di confronto interno per l’elezione del nuovo segretario. Domenica a Roma si terrà la Convenzione Nazionale che sceglierà i tre candidati per le primarie del 25 ottobre. Dopo quella data il Partito Democratico riuscirà a riprendere in mano le fila dell’opposizione? Ne abbiamo parlato con Filippo Penati, coordinatore nazionale della mozione Bersani.

Violante sul nostro giornale ha sostenuto che tra i due candidati esiste una visione opposta di partito: una fatta di regole e democrazia, portata avanti da Bersani; l’altra, fluttuante e disordinata, quella di Franceschini. Quest’ultima sarebbe alla base dello strano meccanismo che fa eleggere il segretario da una “nebulosa” e non dagli iscritti?



Sono d’accordo con la lettura di Violante. La chiarezza è comunque venuta dagli iscritti che hanno dato la loro fiducia a Bersani, nella direzione di un partito organizzato, che non sia malato di leaderismo, un partito che, per intenderci, non va in televisione a parlare degli operai senza poi riuscire a portare nelle fabbriche neanche un volantino.
Bersani è l’uomo che, con maggiore autorevolezza e con un profilo personale di grande rilievo, può costruire l’alternativa di governo a Berlusconi e alle destre. Nel complesso la sua proposta è più solida, più concreta e ha gambe più salde dell’altra per camminare. Il nostro obiettivo è dire agli italiani che abbiamo un progetto e abbiamo costruito una coalizione coerente, che può governare meglio di quanto ha fatto questa maggioranza.

Si aspettava la resa di Franceschini dopo l’esito delle votazioni tra gli iscritti? Adesso il Pd avrebbe già un leader e potrebbe avere un ruolo di primo piano, che da tempo non ha più.



Sinceramente non me l’aspettavo e non l’ho nemmeno chiesto. Le mie parole sono state fraintese. Avrei voluto soltanto che non si archiviasse questa fase come se non fosse successo nulla, prendendo atto della volontà espressa da una platea così vasta, ben 450.000 iscritti. Purtroppo c’è stata, e c’è ancora oggi, una sottovalutazione di questa prima fase, come se non avesse rango politico. Penso che sia irrispettoso.
Aggiungo una cosa: non sono convinto di questa ipotetica frattura tra “iscritti” e “popolo delle primarie”, che vorrebbe conservatori i primi e innovatori i secondi.
Bisognerebbe tener presente che gli iscritti saranno i primi a partecipare alle primarie per un motivo molto semplice: sono quelli che monteranno i gazebo. Chi alimenta questa contrapposizione divide il partito, non lo unisce.



Lei quindi crede alla bontà delle primarie? Il Pd continuerà in futuro a eleggere il segretario in questo modo?

Le primarie sono un metodo irrinunciabile di selezione delle candidature e sono parte del nostro atto costitutivo. Sulla base dell’esperienza di questi primi anni però si possono fare degli aggiustamenti che rendano questo strumento sempre più utile e sempre meno un appesantimento, come può succedere in alcuni casi.
Domenica alla convenzione verrà eletta la Commissione Statuto e avremo modo di fare una riflessione serena e con spirito unitario su questo. Le primarie del 25 ottobre saranno un momento importantissimo e sono convinto che confermeranno il risultato degli iscritti con un ampio margine.

Il congresso di domenica confermerà i tre candidati alle primarie, rischia però di non entusiasmare e di passare in secondo piano nell’attuale contesto politico. Non pensa?

Invece sarà un passaggio politico fondamentale. Si continua a dire che non succederà niente di nuovo, ma per la prima volta i tre candidati alla segreteria parleranno in rapida successione di fronte a una platea di delegati alla Convenzione Nazionale. Parleranno di fronte al paese e ai mezzi di comunicazione. La politica avrà la prevalenza, ci sarà il confronto. È così che si costruisce la proposta politica e il suo percorso, il profilo del partito e l’alternativa di governo.

Parlando al Paese il Partito Democratico deve provare a riconquistare settori importanti della società civile. Quali prima di tutto?

Bersani ha dichiarato che se farà il segretario costruirà “un Pd popolare e dei ceti produttivi”. C’è bisogno di riannodare il rapporto con i ceti popolari e di tornare a essere un punto di riferimento largo, esteso, importante a cui si possa guardare con fiducia per il miglioramento delle proprie condizioni di vita. Parallelamente occorre un percorso che ci rimetta in sintonia con il mondo del lavoro e dell’impresa.
Se siamo al 26% e abbiamo perso 4 milioni di voti in un anno, tra elezioni politiche ed europee, è evidente che bisogna riconquistare quelli che ci avevano votato e che non hanno più avuto le motivazioni per votarci. Dopodiché allargheremo il consenso.

Da ex presidente della Provincia di Milano come si spiega la caduta di consensi del suo partito al Nord? In cosa avete sbagliato?

 

 

Un partito riformista come il nostro deve assolutamente cercare di riannodare i fili di un rapporto con la società civile del Nord.
La crescita della Lega è nel segno dell’antipolitica o comunque di una risposta politica così semplificata da non voler considerare la complessità dei temi. La crisi ha però aperto delle crepe tra i ceti produttivi e il centrodestra e questo crea nuovi spazi di rappresentanza. È una sfida: vincerà chi saprà indicare una via d’uscita credibile da questo periodo di crisi.

Polito e Battista sul nostro giornale hanno detto che la sinistra da 15 anni è bloccata dall’antiberlusconismo e non è mai riuscita a liberarsene. È d’accordo?

L’antiberlusconismo da solo non basta. Se siamo in queste condizioni non è perché abbiamo fallito la prova dell’opposizione, ma quella del governo. Se tutto fosse andato bene saremmo in giro a raccontare le cose buone fatte dal governo Prodi e a prenderci gli impegni per il 2011. Invece siamo in queste condizioni perché l’Unione non ha retto alla prova del governo.
Dobbiamo tornare dagli italiani con un progetto e delle alleanze coerenti suscitando la fiducia sul fatto che reggeremo alla prova del governo.
Non credo alla "santa alleanza" proposta da Franceschini in nome dall’antiberlusconismo, quella era già l’Unione.

Quale sarà il piano delle alleanze di Bersani, se sarà eletto segretario?

C’è una premessa: con il 26% è impossibile costruire un’alleanza omogenea e credibile che possa battere Berlusconi. Per prima cosa quindi il partito deve crescere e tornare a raccogliere il 30-35%. Il secondo passaggio è il progetto politico da costruire, la conseguenza è l’alleanza con chi condivide il progetto.
La nostra operazione è un sasso nello stagno, spero che smuoverà le acque e contagerà anche le altre forze. Sono convinto che lo scenario non rimarrà immutato e il percorso di rinnovamento del centrosinistra riguarderà tutti. Penso alla Francia, alle nuove culture politiche e al dinamismo dei movimenti ambientalisti.

I temi etici e la “laicità” del partito sono un nervo scoperto? Si registra a questo proposito una certa preoccupazione della componente cattolica del Pd nel caso di una vittoria di Bersani?

Se è una preoccupazione espressa in buona fede, semplicemente non ha ragione di esistere. Purtroppo però è strumentale ed è un argomento usato per forzare la mano all’ala cattolica e appoggiare Franceschini.
Al congresso si cercherà di trovare un equilibrio avanzato su questo tema conciliando il diritto a una posizione personale e le ragioni delle istanze collettive del partito.