A sorpresa, dopo l’annuncio di un ddl sul processo breve (il processo non può durare più di sei anni) concordato nell’incontro Berlusconi-fini dell’altro giorno, il Pdl ha presentato a firma Margherita Boniver una proposta di legge costituzionale per reintrodurre l’immunità parlamentare, cancellata nel 1993 durante le inchieste di Tangentopoli. Un passo importante per difendere la politica dall’attacco di certa magistratura, che dalla fine degli anni ’80 ha perseguito una strategia politica per via giudiziaria. A dirlo è Calogero Mannino, già politico Dc e ora deputato dell’Udc dopo una travagliata storia giudiziaria durata quasi vent’anni, dalla quale è uscito assolto. Ma «delle mie vicende personali non parlo – dice Mannino a ilsussidiario.net – e il motivo è molto semplice: oggi io non sono un imputato assolto ma un deputato, e devo parlare dei problemi della giustizia in modo neutro, indipendente da me». Esattamente quello che non fa e non può fare Berlusconi, secondo l’ex ministro Dc.



Proprio ieri il Pdl ha presentato una proposta di legge costituzionale per il ripristino dell’immunità parlamentare. Che ne pensa?

Io sono uno dei primi a dire che andava reintrodotta, perché sono convinto che l’immunità sia strettamente collegata all’esigenza di garantire la libertà e l’indipendenza del Parlamento. Senza questa dote il parlamentare è in balia delle onde. Esiste una prepotenza dalla quale ci si deve sempre difendere: ieri da quella dei re, oggi di alcune procure della Repubblica. È possibile, con lo strumento dell’immunità e dell’autorizzazione a procedere, mettere il Parlamento in condizioni di fare un uso corretto dell’esercizio di garanzia della funzione parlamentare.



Non esiste il rischio che diventi uno strumento di impunità?

No. Alla fine del mandato, quando il parlamentare non dovesse più tornare alla Camera, potrebbe essere processato. Credo che l’esempio di Chirac in Francia possa essere illuminante per tutti: dopo due mandati da presidente della Repubblica è stato portato davanti al giudice per presunti reati compiuti nel suo precedente mandato di sindaco di Parigi.

Le riforme allo studio del governo sono lo strenuo tentativo di sanare un conflitto tra politica e giustizia che si protrae ormai da quindici anni. Esiste una via d’uscita?

Innanzitutto il conflitto giustizia-politica non è grave come lo è stato in passato. Mentre nel biennio 1992-’94 alcune procure della Repubblica hanno portato un attacco organizzato contro il sistema politico, oggi questo corso della giustizia appare di fatto ridimensionato intorno ai fatti e ai casi che riguardano il presidente del Consiglio. Poi dico subito che, se veramente si vuole affrontare e risolvere il problema della giustizia, la prima scelta da fare è di metodo e di precondizione. La politica deve affrontare il problema non in termini reattivi, ma di valutazione e di proposta strategica.



Qual è la sua diagnosi?

 

 

Dalla fine degli anni ’80 c’è stato uno straripamento dei poteri di alcune procure, finalizzato ad obiettivi e a risultati politici. Occorre al più presto ritrovare la normalità, perché siamo una repubblica fondata sulla separazione dei poteri. Ma qui c’è esattamente un potere che ha debordato, e invaso l’ambito di quello legislativo ed esecutivo. Del legislativo in particolare: perché, per effetto dell’iniziativa delle procure, sono state introdotte surrettiziamente delle correzioni al codice di procedura penale e delle vere e proprie norme sostanziali del codice penale.

 

Come è potuto avvenire che la magistratura abbia assunto un ruolo di creazione del diritto e non soltanto di applicazione delle leggi?

 

Perché a partire dalla fine degli anni ’80, con la mutazione del quadro politico e la fine della paura del comunismo, alcuni magistrati, collegati al Pci, hanno trovato il modo di colmare la crisi del partito comunista. Nella fase in cui questo partito non aveva più retroterra ideologico e linea politica alcune procure, nella persona di quei magistrati, hanno dato al partito una nuova linea politica. Al punto che oggi l’onorevole D’Alema è costretto ad ammettere che nel ’92 e nel ’93, insieme al gruppo dirigente del partito – Occhetto, Violante, Veltroni – fece l’errore di assecondare la deriva giustizialista, che salvaguardava loro innanzitutto. Hanno pagato il conto con il loro segretario amministrativo, Marcello Stefanini, e sono andati indenni da tutte le vicende giudiziarie del ’93-’94.

 

Ora sembra in atto un ripensamento storico e politico di quella scelta, e proprio ad opera di una personalità di primo piano come Luciano Violante. Quello che lei dice trova conferma nel suo ultimo libro, Magistrati.

 

Certo, perché adesso il personale politico che viene dalla storia comunista si trova a dovere sopportare una “capitis diminutio” derivante dalle conseguenze di quella scelta: la riduzione ad un rango subordinato rispetto alle iniziative di alcuni sostituti. Certi sostituti procuratori – che fanno riferimento ad una rete ben precisa, a una rivista culturale, a un quotidiano – mostrano un’iniziativa che non è meramente giudiziaria, ma di vera e propria strategia politica che si avvale del mezzo giudiziario.

 

All’inizio lei ha detto che l’attacco giudiziario è cambiato: nel mirino non c’è più una certa parte del sistema politico ma Silvio Berlusconi. Questo che cosa cambia?

 

 

 

  

 

Berlusconi avrebbe dovuto affrontare il problema della giustizia “sub specie aeternitatis”, per di così, cioè sotto le categorie del problema generale. Invece ha impostato il tema della riforma della giustizia in termini di mera difesa personale. Il diritto alla difesa è incontestabile; ma il diritto di trasformare la sua difesa personale in una linea politica generale non può essergli riconosciuto.

 

Si riferisce al confronto interno alla maggioranza sulla prescrizione breve?

 

Non si tratta solo di quello. Le leggi e leggine che spuntano da quindici anni tutte le volte che Berlusconi è al governo a ben vedere non hanno mai risolto il suo problema giudiziario, e questo perché egli non lo ha affrontato in termini generali. Ma è Berlusconi a non poterlo affrontare in termini generali.

 

Perché?

 

Perché non è portatore di una cultura dello stato. L’altro giorno D’Alema ha detto: “meglio il presidenzialismo. Almeno ci sarebbe un Parlamento che bilancia, come avviene negli Stati Uniti”. Ma è stata la politica di Berlusconi a svuotare il Parlamento, perché il meccanismo della legge elettorale lo ha messo nella condizione di nominare i parlamentari. Questo dimostra che Berlusconi non ha un concetto del tipo di stato e di governo che vogliamo realizzare. Ma se manca un preliminare concetto dello stato e del governo, non si sa come affrontare il problema della magistratura.

 

Qual è la sua valutazione politica dei fatti di cui è accusato il sottosegretario Nicola Cosentino?

 

Non conosco le carte. So solo quello che dicono i giornali e questo non basta. Ma non mi lascio determinare da un pregiudizio. Un indagato è innocente fino alla condanna finale. Ma c’è di più: cos’è questo “concorso in reato associativo”? Le Sezioni riunite della Cassazione hanno provato a dirlo, ma forse non basta. Come vede, la riforma della giustizia andava fatta per cose importanti. Cominciando dal codice di procedura penale e dal codice penale.

 

Crede quindi che non si farà una vera riforma?

 

Rischiamo piccoli aggiustamenti che ripropongono il problema il giorno dopo. Il compromesso tra Berlusconi e Fini dell’altro ieri mi pare che ponga le premesse per problemi più seri: perché lo libera subito il capo del governo da due processi, ma non lo libera dai processi futuri.

 

Dunque è pessimista?

 

No, sono estremamente realista. Berlusconi non ha affrontato, nei tempi in cui il voto gli ha consentito di esercitare la maggioranza, questi problemi come doveva.

 

(Federico Ferraù)