È strano che, nel momento in cui il Trattato di Lisbona si avvia alla sua ratifica finale grazie alla riluttante approvazione del presidente ceco, la questione di chi sarà il primo presidente del Consiglio d’Europa è stata improvvisamente “elettrizzata” dalle notizie che vengono dall’Iraq, le peggiori di questi due anni.



Altrettanto improvvisamente siamo ritornati al 2003, quando la personalità di Tony Blair diventò una delle più dibattute materie di discussione del decennio, a seguito del suo deciso sostegno al governo americano di George W. Bush per la rimozione di Saddam Hussein. Gli ultimi disastri di Baghdad, insieme all’opposizione alla sua candidatura del Partito Conservatore (che sarà probabilmente al governo dopo le prossime elezioni), potrebbero aver messo fine alla possibilità che Blair divenga il primo “vero” presidente dell’Europa.



Se fosse così, sarebbe un gran peccato. Chi propugna l’elezione di Tony Blair alla presidenza europea porta come elementi in favore la sua esperienza (praticamente senza rivali in Europa), la sua personalità, il suo carisma e il fatto che sia conosciuto sul piano internazionale più di qualsiasi altro possibile candidato. Il ministro degli Esteri inglese, David Miliband, ha detto che l’Europa ha bisogno di qualcuno capace di “fermare il traffico” a Washington come a Pechino.

Per ora, la creazione della presidenza del Consiglio sembra offrire una terza presidenza funzionale ma anonima, da aggiungere a quelle della Commissione e del Parlamento, e Blair ha la statura internazionale per evitare che ciò accada, ma questo non basterebbe alla sua elezione. Per questa nuova carica occorre un leader capace di posizionare il presidente del Consiglio fuori dagli schemi burocratici predisposti dalle istituzioni della UE, segnalando così ai cittadini europei, e al mondo intero, che l’Unione Europea è finalmente diventata una comunità di popoli.



Blair ha la personalità giusta per comunicare, all’interno e all’esterno, i messaggi fondamentali circa il futuro dell’Europa, di parlare in modo convincente sulle relazioni tra Europa, Cina e Stati Uniti, sui cambiamenti climatici e sull’immigrazione, di prospettare un nuovo modello per l’economia e, non ultimo, di proporre la fede come una componente essenziale della società civile moderna, come ha fatto recentemente a Rimini. La sua elezione definirebbe da subito il ruolo del presidente del Consiglio d’Europa in un modo ben preciso.

Tuttavia, Blair non piace a molti in Europa, soprattutto per il suo ruolo nell’invasione dell’Iraq. L’opinione pubblica è ormai così inquinata da pregiudizi che è quasi impossibile che vengano ascoltati argomenti in sua difesa. Resta il fatto, però, che se non fosse per l’enfasi posta dai governi alleati sulla presenza in Iraq di armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione del 2003, questa avrebbe cessato di essere un argomento così controverso.

Se allora Blair avesse seguito il suo istinto dichiarando che l’invasione era necessaria per far cadere quel regime, la decisione sarebbe stata inattaccabile. Fidandosi di rapporti di intelligence sulle armi di distruzione di massa rilevatisi poi inattendibili, ha consentito che il dibattito si concentrasse sul tema della onestà e della credibilità, invece che sull’imperativo morale di abbattere uno dei peggiori dittatori dell’età moderna.

Si è spesso descritto Blair come un maestro della tessitura, con un’avversione ai conflitti e un uso di parole appassionate per nascondere una mancanza di passione. Sebbene abbia indubbiamente il carisma necessario per diventare un politico popolare, egli ha anche una serietà di fondo che non sembra corrispondere a queste apparenze. Basta guardare oggettivamente al suo operato, non da ultimo l’eredità di pace che ha lasciato nell’Irlanda del Nord, per vedere un politico che ha fatto uso del suo carisma per celare un cuore di serietà per molti versi anacronistico per questi tempi, in cui sembra apprezzata la mancanza di carisma. Blair ha conservato i suoi pensieri e talenti più profondi per giocarli quando ha ritenuto fosse necessario farlo, anche a costo di una quasi irrimediabile impopolarità.

 

La situazione in Iraq, dopo l’invasione del 2003, è passata da cattiva a terrificante, per poi migliorare e infine tornare pessima, ma non è su questo che dovrebbe essere misurata la moralità della causa. Da quanto emerso, per esempio, dai diari dell’addetto stampa di Blair, Alastair Campbell, ancor prima dell’invasione Tony Blair era da tempo mosso dal desiderio di liberare il mondo da Saddam e, posta la questione in questi termini, ben pochi potrebbero essere in disaccordo.

 

A quell’epoca, quasi tutti pensavano che l’Iraq avesse programmi su armi di massa, anche molti di quelli che poi si rivoltarono contro Blair per seguire il vento dell’opinione pubblica. Anche se occorre dire che Blair, per ottenere l’appoggio pubblico, ha esagerato il pericolo e presentato uno scenario peggiore di quanto poi si è dimostrato nella realtà.

 

Per tutto questo, o nonostante tutto questo, si rischia la polemica affermando che proprio l’intensità delle critiche è prova della qualità più forte di Blair: la sua volontà di prendere posizioni chiare, assumere decisioni impopolari e poi mantenerle. Di lui si può dire tutto, ma non che manchi di coraggio politico.

 

Quindi, il principale argomento in favore di Blair è forse proprio il suo ruolo nell’invasione dell’Iraq e in altri interventi all’estero e nella risoluzione di conflitti, compresa la liberazione della Sierra Leone, di Timor Est, nel Kossovo e, più vicino a casa, in Irlanda del Nord.

 

Sarà comunque molto difficile ottenere ascolto per queste opinioni su Blair, dato che il dibattito pubblico continua a essere dominato da un atteggiamento puerile di rifiuto dell’esercizio del potere.