Quando lo scontro politico oltrepassa il limite ed entra nella “stagione del fango e dei veleni”, come ha scritto il direttore de Il Corriere della Sera qualche giorno fa, urge un passo indietro e una riflessione serena sullo stato di salute della politica e dell’informazione. Ne abbiamo parlato con Giovanni Minoli, giornalista e conduttore televisivo.
Nell’editoriale di lunedì, Ferruccio De Bortoli ha dichiarato che il Paese non merita l’immagine di cui sta soffrendo, chiedendosi con preoccupazione come verrà giudicato dai nostri figli questo particolare momento che stiamo attraversando. Cosa ne pensa?
La tesi secondo la quale il Paese è migliore della sua classe dirigente viene ripetuta da tempo e penso che sia vera in parte. Viviamo immersi in una società mediatizzata, nella quale la globalizzazione sembra aver portato più superficialità che profondità. Siamo accompagnati da una colonna sonora di rumore, più che di informazione, indirizzata al consumatore e non al cittadino.
Quali sono gli effetti di questa confusione?
Questo clima amplifica le autoflagellazioni di cui siamo capaci, basti pensare a quel misto di masochismo, provincialismo e autoironia con cui rappresentiamo da sempre il nostro Paese. C’è poi il malcostume diffuso di cercare sempre un alleato all’estero per battere il nemico interno. Questo provincialismo mediatico non tiene conto però dei riflessi che questo ha nel mondo. Il fango che ci tiriamo addosso è facilmente commerciabile negli altri paesi, soprattutto se tratta temi pruriginosi.
Chi ha delle responsabilità a questo riguardo?
Se chi gestisce i media non sente questa responsabilità direi che ha un’ignoranza colpevole. Questo, come diceva De Bortoli, non significa che i giornali non debbano dire la verità o fare le inchieste, ma dovrebbero avere un minimo di amor proprio. D’altra parte, il fatto di avere un premier con una cultura della comunicazione spettacolare, certo non aiuta. Ha degli effetti positivi in alcuni casi, penso al G8 in Abruzzo, ma complica le cose.
Sempre più spesso tra l’altro tendiamo a importare modelli di tradizione anglosassone.
Cosa intende?
Parlo di una deriva moralistica lontana dalla nostra tradizione, che è invece legata alla cultura cattolica e a un’idea del peccato e del perdono molto diverse. È in atto una furia moralistica “vittoriana” a noi estranea, piuttosto superficiale, che in genere porta alle ghigliottine e alle reazioni.
Se nell’informazione occorre registrare questa deriva, nella classe politica è riesplosa però una “questione morale”?
Penso che il problema della corruzione nell’amministrazione pubblica riguardi tutti i governi del mondo. È un problema che va combattuto sapendo che è una battaglia come quella con il peccato: infinita. È importante comportarsi bene ed essere giudici severi di se stessi prima che degli altri, cosa che i moralisti spesso non fanno.
Qual è invece lo stato di salute del giornalismo, soprattutto televisivo?
La televisione è dominata dai talk show politici all’italiana, di cui penso tutto il male possibile: la parola viene distrutta, perde significato e si sgancia dalla realtà. Alla fine della trasmissione ci si ricorda solo chi era il conduttore. In questo contesto diventa impossibile confrontare le opinioni, la discussione scende a livello degli slogan e le persone intelligenti che vi partecipano diventano sostanzialmente “venditori di spot”.
Cosa intende lei per informazione televisiva?
Per me la televisione è essenzialmente un servizio al cittadino, sia che voglia rimanere aggiornato sul dibattito politico, sia che voglia distrarsi, sia che voglia acculturarsi. Se parliamo di informazione politica a mio parere il servizio migliore lo fanno le interviste approfondite e le inchieste. Sicuramente non le risse che coinvolgono solo il palazzo all’interno di se stesso, diseducando profondamente il telespettatore, che poi è anche cittadino e porta sul posto di lavoro questi modelli di comportamento.
La televisione quindi ha una responsabilità educativa secondo lei?
La televisione è sempre una macchina di trasmissione di valori, belli, brutti, alti, bassi… La televisione è pedagogica in sé. Anche il Grande Fratello è pedagogico e trasmette i suoi valori: la vita è un gioco e se sorteggi il biglietto della lotteria giusto ottieni il successo…
Seguendo il suo ragionamento ci troviamo davanti a un’“emergenza educativa”, come la Chiesa segnala da tempo?
L’emergenza educativa a mio parere è clamorosa. Le tre agenzie di senso della vita che a mio parere sono la famiglia, la scuola e la televisione, sono unite in un circolo tutt’altro che virtuoso. Non sempre e non tutte, ovvio. Rimango un ottimista e cerco di trovare dei punti di speranza: se, ad esempio, il canale Rai Storia triplica il suo pubblico dopo un anno di vita secondo me significa che c’è una domanda inevasa di contenuti di riflessione e di approfondimento, anche se non viene più ascoltata.
Come mai?
Perché non c’è più selezione della classe dirigente televisiva. Negli altri paesi i dirigenti sono prodotti dalla televisione, da noi invece chiunque può fare il consigliere d’amministrazione, il direttore della Rai, il direttore di un telegiornale.
Torniamo alle colpe della politica che si intromette dove non dovrebbe?
La politica c’era anche prima, la differenza è che una volta i partiti si facevano la lotta culturale e politica mettendo in televisione i propri uomini migliori e nel mercato delle idee competevano verso l’alto.
Di quali altre colpe è giusto chiedere conto a questa classe politica?
Il conflitto di interessi è un problema che ha inquinato il Paese. Secondo me è innegabile, ma nei due sensi. Quello di Berlusconi è enorme, ma c’è anche quello della sinistra italiana che, a mio parere, ha avuto una posizione ambigua e opportunistica su questo tema. Tutto ciò ha reso indistruttibile il potere di Berlusconi e incredibili, nel senso di non credibili, le battaglie della sinistra.
Pensa anche lei che dal quadro che si delinea, nella politica come nella società, ci sia il rischio di ricadere nel clima degli “anni di piombo”?
Mi interrogo molto su questo, ma non saprei dare una risposta. È un rischio che c’è perché nel momento in cui l’emergenza sociale incrocia l’incapacità della politica di dare delle risposte lì c’è il terreno di coltura della violenza e della reazione, anche estrema. Per adesso gli ammortizzatori sociali, anche familiari, hanno retto abbastanza, ma quanto possono durare?
Da dove ripartire? Cosa manca allora?
Manca un orizzonte di valori, di sogno, manca una politica che faccia sognare. Uno fa qualunque sacrificio per una causa in cui crede, ma deve sentirsi coinvolto in qualche cosa. Se la politica non fa sognare non si capisce cosa faccia oltre alla gestione e all’amministrazione del potere.
Se quello che manca è un orizzonte, nell’immediato come si può uscire dalla contrapposizione frontale, dalla battaglia tra nemici e dalla stagione del fango e delle calunnie?
È un problema di uomini di buona volontà e penso che sia la speranza che abbiamo tutti: l’interesse generale, il bene comune, è più importante di tutto. Se uno pensa ai Padri costituenti, alla violenza dello scontro ideologico che c’era in atto e allo sforzo che fecero per fare la Costituzione e poi tornare a dividersi e a combattersi, forse lì c’è da ispirarsi e imparare qualcosa.