Berlusconi non pensa a norme sulla prescrizione per dribblare i processi ai quali la bocciatura del lodo Alfano ha dato il semaforo verde. Ma si avvale del legittimo impedimento per rinviare le udienze che lo vedono chiamato in giudizio, a cominciare da quella del 16 novembre prossimo sulla compravendita dei diritti tv. E boccia il Pd: «se Bersani deciderà di cambiare registro e di concorrere alle riforme, il più contento sarò io», ha detto Berlusconi. Avanti anche da soli, quindi. La riforma della giustizia si conferma in ogni caso uno dei fronti più delicati per l’azione di governo. «Per ora ci sono solo proposte vaghe e in divenire – dice Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia -. Ma se la maggioranza ritiene di fare una buona riforma, fa bene a farla anche da sola».
Berlusconi ha fatto sapere di essere disponibile a riformare la giustizia anche senza un accordo con l’opposizione. Non si rischia una riforma che non fa bene al paese?
La riforma della giustizia è di una necessità assoluta, questo è il dato politico preliminare. Proprio per questo non può essere sfoderata o rimessa nel cassetto a seconda delle vicende politiche o delle sentenze che riguardano Berlusconi. Questo è un errore che nuoce innanzitutto a Berlusconi e alla sua maggioranza, come gli nuoce il fatto di affidare i temi della giustizia ai suoi avvocati. Mi chiedo come possano nello stesso tempo agire nell’interesse del cliente ed essere buoni legislatori.
Dunque c’è il rischio di una riforma viziata da interessi particolari. È indubbio che la vicenda del lodo Alfano ha mutato profondamente lo scenario, le pare?
Diciamo che ha reso tutto più difficile. La cosa peggiore sarebbe che la riforma della giustizia fosse l’occasione per sistemare gli effetti politici della sentenza della Corte. A parer mio tra l’altro ineccepibile, perché il regime di immunità per le più alte cariche dello stato è un punto nevralgico della Carta che va riformato attraverso una procedura costituzionale. Ma questo conferma le gravi responsabilità della Consulta in questa vicenda, perché se ha ragione oggi, ha sbagliato con il lodo Schifani cinque anni fa. Per il resto, leggiamo di proposte abbastanza vaghe e in divenire.
Ma sarebbe opportuno cercare un consenso più trasversale per cambiare la giustizia?
Guardi, è una questione che mi lascia indifferente. Mi interessa la qualità di una riforma, non quelli che l’approvano. La maggioranza semplice è più che sufficiente quando si tratta di riforme che non toccano la Costituzione. Se si vuol cambiare la Carta, giova ai proponenti che vi sia una maggioranza dei due terzi perché esclude il referendum. Ma se i proponenti sono convinti delle loro buone ragioni, vuol dire che sono anche pronti a portarle davanti al popolo, e allora ben venga una riforma fatta a maggioranza. A condizione che sia una vera riforma.
Se il Pd dice di sì a Berlusconi si espone alle accuse di collusione col “nemico”, se dice di no dà una mano a Di Pietro. È un partito “bloccato”?
Un partito del 26 per cento che si facesse condizionare da Di Pietro non sarebbe degno di essere la principale forza di opposizione. Se il Pd perde voti a favore di Di Pietro, non è perché è troppo morbido, ma perché non ha un’identità. Se avesse una robusta e moderata linea riformista di centrosinistra non avrebbe nulla da temere.
C’è una politicizzazione della magistratura?
Eccome se c’è. Non solo ci sono correnti organizzate da tempo ormai immemorabile, ma anche una politicizzazione in capo a singoli magistrati, che non ne fanno alcun mistero. A questo punto, dico – e non solo perché l’ho sempre pensato, perché c’è nel modello anglosassone o perché lo dice la Lega -: se devono essere così politicizzati, che vengano eletti. Nel nostro paese stenta a farsi strada la comprensione reale del fatto che giudici e pm sono cose diverse. Ed è sorprendente, perché su questo la Costituzione è chiarissima.
Dunque separazione delle carriere?
Ma certo, e c’è da sperare che la maggioranza decida in fretta. La separazione è la condizione minima dell’autonomia del giudice. Perché se il giudice fa parte della stessa carriera del pm, ne è inevitabilmente condizionato: se debbo scegliere tra la tesi di avvocati che mi sono totalmente estranei e la tesi di colleghi della medesima e identica corporazione con le medesime e identiche progressioni di carriera, sono più sensibile ai miei colleghi.
Un’altra riforma-chiave cui mettere mano subito?
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Quella del processo civile. Per il momento c’è una delega al governo, mi sembra davvero eufemistico parlare di riforma. Bisognerebbe comunque cercare una via per risolvere in modo extragiudiziale molte liti bagatellari che intasano i tribunali. Servono arbitrati tra le parti con procedure semplificate.
C’è secondo lei un accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi?
Che ci sia accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi non c’è ombra di dubbio. E questa è già di per sè una cosa molto grave. Tra l’altro questo, poi, spinge Berlusconi a difendersi in forme esagitate e questo avvelena la situazione. La responsabilità risale però alla magistratura che non può, nel modo più assoluto, perseguire obiettivi di parte o farsi trascinare nella spirale del pregiudizio, anche soltanto personale, ideologicamente ispirato.
Sta qui il nocciolo di 15 anni di conflitto tra giustizia e politica?
Può sembrare paradossale, ma se uno deve fare opera di giustizia, occorre che faccia quello. Né di più, ne di meno. Amministrare la giustizia non deve significare fare azione moralizzante per cambiare radicalmente la società. La giustizia ha bisogno di gente imparziale, non di santi votati alla causa.
Reintrodurrebbe l’immunità?
Sì. L’articolo 68 della Costituzione garantiva un equilibrio che è completamente saltato e che andrebbe ripristinato.
Come si è arrivati al preponderante ruolo dei pm?
Gravi danni ha fatto un codice solo apparentemente garantista come il codice Vassalli, perché ha dato al pubblico ministero la titolarità del processo. Nel vecchio rito il pm era sottoposto al giudizio istruttorio. Raccoglieva sì le prove, ma non era lui a decidere il rinvio a giudizio, bensì il giudice istruttore, rispetto al quale il pubblico ministero aveva un ruolo del tutto subordinato. Viceversa, in nome della parità con l’accusa, il codice Vassalli ha esaltato il ruolo del pm, lo ha reso arbitro non solo dell’indagine ma anche del processo. Col risultato che il pm ha aumentato i propri poteri mentre lo scopo della riforma, la reale parità, è rimasta sulla carta.
Lei è diventato ministro della Giustizia proprio dopo Vassalli, trovandosi a gestire la riforma. Cosa ricorda?
Venni invitato a spiegare il nuovo codice penale, su invito dell’avvocatura di Parigi, agli avvocati francesi. Siamo pieni di ammirazione per questa riforma all’americana, mi dissero, però francamente pensiamo che finché i nostri avvocati non saranno in gradi di fare le contro indagini come le fanno gli avvocati americani, preferiamo tenerci i nostri giudici istruttori, che almeno controllano che i pubblici ministeri non debordino. Chiaro, no?
Tragga lei le conclusioni.
Ci innamoriamo di modelli stranieri, ne importiamo un pezzo, lo incastriamo nel nostro sistema e i risultati sono tragici. Il nuovo codice di procedura penale, di fatto, è l’esaltazione del pubblico ministero. E pensare che era nato come codice garantista. Non solo: un’altra delle sue conseguenze nefaste è l’aver subordinato totalmente gli ufficiali di polizia giudiziaria ai pm. Ci vorrebbe invece un’autonomia dell’indagine di polizia; sottoposta al controllo del pm, ma senza avere un pm arbitro, oltre che dell’azione di polizia, anche del processo.
Cosa pensa del caso Mills che vede imputato il premier?
Preferisco non parlarne, né fare previsioni. Posso solo dire che mi sembra incredibile che un processo si fondi sulla corruzione, da parte di un signore, del proprio avvocato. Che avrebbe reso falsa testimonianza. Ma come si fa a corrompere il proprio avvocato? In genere si pagano le parcelle. Non bastano quelle a fargli fare l’interesse del suo cliente? Mi pare un presupposto abbastanza labile.
(Federico Ferraù)