Lo avevano detto, e ci siamo arrivati. Se Berlusconi non l’avesse piantata, l’esasperazione avrebbe potuto sfociare in violenza, aveva lasciato più volte intendere Antonio Di Pietro. Alla fine, la violenza è venuta. Dice: ma che significa? A spaccare la faccia a Berlusconi è stato uno psicolabile, uno fuori di testa. Sia maledetta l’ignoranza.



In Russia, dopo un decennio di propaganda inneggiante all’assassinio di Stato e al terrore, a por mano per primo alla pistola non fu Necaev che aveva scritto Il catechismo del rivoluzionario mentre profeticamente Dostoevskij scriveva I Demoni. Fu una giovane donna, Vera Zasulic, la prima a sparare nel 1877 contro “un servo dello zar”, il generale Trepov. Una giovane che nelle carte processuali è descritta come «natura esaltata, morbosa, ipersensibile», non diversamente da quel che si dice dello spaccafaccia del premier oggi.



Si apriva la strada che portò all’assassinio di Alessandro II e poi dritti, attraverso sangue a fiumi, alla strage dei Romanov. La Zasulic fu assolta, nel tentativo di evitare di farne un’eroina. Divenne socialista rivoluzionaria prima e menscevica poi, in contatto epistolare con Marx ed Engels. Prima di morire, nel 1919, di fronte agli orrori rivoluzionari maledì il gesto con cui lei per prima aveva dato inizio al terrore. Ma tant’è, la storia aveva preso il suo corso.

Nessun paragone improprio, d’accordo. Ma è solo per dire che l’ipocrisia si è sprecata per anni, nel crescendo di demonizzazione personale di Berlusconi. Dal profittatore di Stato ai tempi dei decreti craxiani sulla tv, si è giunti al prosseneta, al corruttore di minorenni, al marito degenere, infine al mafioso e stragista, a dar retta a Repubblica e al sedicente pentito Spatuzza.



E tutto ciò senza contare gli epiteti e gli apprezzamenti che si sono accumulati sulla sua attività politica, sul suo essere autoritario, anticostituzionale, monarca intollerante come ha detto Fini, dittatore da rimuovere con un nuovo Cln, come ha fatto capire Casini evocando l’alleanza straordinaria dei partiti antifascisti, all’indomani del 25 luglio ‘43.

Non mi piace l’urlìo quotidiano in cui da anni si risolve l’opposizione ogni volta che perde le elezioni. Né, da liberale e liberista, personalista e sussidiarista, mi piace vedere che i temi utili a fare andare un po’ meno peggio l’Italia siano sempre rimandati, di fronte all’emergenza giudiziaria sempre aperta e alla caccia al Berlusconi.

Da qualche anno, però, ho capito che non se ne esce. L’anomalia Berlusconi, così irriducibile alla trattativa rassegnata e difensivista con un avversario spietato cui la vecchia Dc aveva abituato il Pci, nasce dalla vera anomalia italiana: la rimozione per via giudiziaria di un’intera classe dirigente con l’eccezione dell’opposizione, quando, caduto il Muro, l’Italia non serviva più come frontiera di sicurezza e gli americani si erano stufati di pagare milioni di dollari per niente.

Per quella rimozione, non abbiamo né una normale forza moderata popolare, né una normale forza di sinistra socialista, e il partito dalla più antica storia nel Parlamento attuale è… la Lega.
Sbaglia chi pensa che possa rassegnarsi l’anima radical populista che vede nelle toghe e nei magistrati l’unico battistero di legittimità per la Nuova Italia delle virtù.

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Cordero e Travaglio, Mauro e Bindi, Franceschini e D’Avanzo, Santoro e Di Pietro, con tutte le differenze del caso, sono accomunati dal pensare che, se occorre, bisogna alzare l’asta dello scontro, finché Berlusconi non molli. E non si torni così alla soluzione unica possibile, per una storia italiana condivisa e “normale”: quella che consegni alle latèbre della memoria non l’avversario vittorioso, ma il nefando impersonificatore del liquame etico che scorre per vene indicibili del corpo italiano, di cui occorre mondare il paese attraverso mille lavacri e salassi, finché l’umor nero venga una volta per tutte espulso.

 

A oggi, non credo affatto che esistano vie intermedie, tanto meno dopo la faccia spaccata a Berlusconi. Tanti italiani hanno gioito. Tantissimi giovani sono ormai cresciuti in un paese la cui unica dimensione politica, da che erano adolescenti, è quella della caccia al mostro. Sarò pessimista, ma non credo che il sangue di Berlusconi fermerà nessuno.

 

Quando Casini – Casini, non Di Pietro – arriva a parlare di Cln, è perché ci si propone di cavalcare onde e pulsioni che non sono più ribaltonisti, ma cimiteriali. Politicamente, s’intende. Ve lo vedete voi, Silvio che tratta l’esilio a Oporto? No. È sulla stanchezza dei moderati per bene che conta il partito radical-populista. Perché venga un nuovo Martinazzoli, scarichi il ducetto da operetta, e finisca tutto come doveva finire nel 1994.