Grandi e meno grandi della Terra, Paesi sviluppati e in via di sviluppo: tutti invocano la necessità di sostenere occupazione e crescita economica per evitare di assumere impegni troppo gravosi, dal punto di vista finanziario, e troppo cogenti, dal punto di vista politico, al vertice sul cambiamento climatico che si sta concludendo a Copenhagen. Il principale ostacolo sulla strada dello sviluppo sostenibile, nella consapevolezza mai così pressante e diffusa che a rischio è ormai la sopravvivenza stessa del pianeta, sembra insomma essere di carattere economico-finanziario. Eppure, è proprio dal più puro “spirito del capitalismo” che potrebbe prendere l’abbrivio la corsa contro il tempo per salvare il pianeta, attraverso la realizzazione di un’economia insieme profittevole e non distruttiva.



Si tratta della torta da circa 500 miliardi di dollari rappresentata delle tecnologie ecologiche, un mercato che potrebbe decuplicare il suo valore se passassero anche solo alcune delle ipotesi ventilate a Copenhagen. Il fatto è che, per ora, gran parte di questo comparto produttivo è concentrato nel Nord del mondo. Ma nell’arco di pochi anni, grandi economie in rapido sviluppo come la Cina, ad esempio, potrebbero entrare a far parte dei grandi esportatori proprio in questo settore. Sta qui una delle spiegazioni della scarsa propensione cinese a prendere accordi vincolanti e verificabili internazionalmente fino a quando il Paese non potrà almeno parzialmente rientrare dei costi di “pulizia” della propria economia attraverso l’export di tecnologia cinese “clean”.



Per le stesse ragioni, invece, gli occidentali premono per una trasformazione più repentina delle economie nella direzione di un loro minor impatto ambientale, consci che, prima ciò avviene, maggiore sarà la fetta di mercato che si assicureranno. Chi è più avanti, nella sostanza, più facilmente si troverà non a perdere ma a sostituire posti di lavoro attraverso il passaggio alla green economy. Mano a mano che scorre il tempo, al contrario, più facilmente la green economy comporterà costi di riassestamento sociale tutt’altro che trascurabili e più lentamente e malamente ammortizzabili.



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Così, nel breve periodo i free-rider, gli inquinatori, guadagneranno di più dei virtuosi; mentre, nel lungo periodo, chi si assume per primo (già oggi) gli oneri del cambiamento rischia di fare un affare anche dal punto di vista economico. Come sempre accade, far quadrare le due logiche e i due tempi è operazione per nulla semplice. D’altronde, a chi si straccia le vesti accusando di miopia i governi che appaiono titubanti a imboccare con coraggio la strada del progresso, occorre ricordare che anche nel campo di politiche ancora largamente “sovrane”, come quelle pensionistiche e quelle della ricerca scientifica, la logica “suicida” del breve periodo prevale sovente su quella “vincente” di lungo periodo.

 

Ma affinché la logica del mercato possa essa stessa spingere verso l’obiettivo di un pianeta “ricco e verde”, è necessario uno sforzo pubblico collettivo nei confronti di quei Paesi, come la gran parte di quelli africani, che alle prese come sono con politiche di sopravvivenza quotidiana, semplicemente non possono permettersi di ragionare né di lungo e neppure di breve periodo. Ed è qui che dovrebbe collocarsi la cooperazione internazionale in termini di vera e propria gratuità, giacché senza uno sviluppo che porti stabilmente questi Paesi oltre l’attuale soglia della povertà non è possibile immaginarsi neppure la sostenibilità ambientale.

 

Il business, il capitalismo e il mercato, allora, potrebbero davvero essere gli strumenti che forse salveranno il pianeta dal rischio di surriscaldamento globale. Difficile, però, che questo prenda avvio già a Copenaghen, dove si è arrivati con posizioni troppo divaricate soprattutto tra i due massimi inquinatori (Cina e Stati Uniti), aspettative eccessive e, ancora una volta, illudendosi che Obama avrebbe potuto fare il miracolo.