L’aggressione a Berlusconi in piazza Duomo ha scosso la politica italiana aprendo una stagione di maggiore dialogo e distensione tra maggioranza e opposizione. Il nuovo anno ci dirà se le buone intenzioni espresse in questi giorni dai protagonisti della scena politica, salvo qualche eccellente eccezione, rimarranno tali o porteranno alle tanto agognate “riforme condivise”. Gli ostacoli all’intesa, comunque, sono evidenti e difficilmente aggirabili, come ci spiega il direttore de Il Riformista, Antonio Polito.   



Quante possibilità ci sono che Pd e Pdl trovino un accordo sulle riforme, a pochi mesi dalle elezioni regionali?

Per adesso si è parlato molto di metodi e poco di contenuti e risulta difficile capire su quali specifiche riforme si intende discutere. Secondo me un’intesa è possibile su un numero minimo di manovre già presenti nella cosiddetta “bozza Violante”: fine del bicameralismo perfetto, istituzione del Senato delle regioni, riduzione del numero dei parlamentari e maggiori poteri per il capo del governo. Sul rapporto tra politica e giustizia il patto è invece molto difficile, per non dire impossibile: anzi, il mancato accordo su queste materie potrà essere usato da una parte o dall’altra per far saltare il tavolo delle trattative.



La riforma della giustizia sarà quindi portata avanti dal centrodestra inevitabilmente a maggioranza?

Il Pd ha già chiarito più volte di non essere disponibile a trattare leggi ad personam. Su questo fronte il governo potrebbe però avere l’appoggio dell’Udc, nel caso abbandoni quelle norme, come ad esempio il processo breve, che mettono a repentaglio l’intero sistema giudiziario. Casini potrebbe accettare il legittimo impedimento, secondo il quale il premier non può essere chiamato in aula quando ha compiti istituzionali, e appoggiare un lodo Alfano bis, ma costituzionalizzato.

Riformare la giustizia senza un accordo con il Partito Democratico significa compromettere quella convergenza sulla bozza Violante a cui faceva riferimento all’inizio?



Questo è un nodo politico che il Pd deve sciogliere. Violante ha ribadito che voterebbe contro un ipotetico lodo Alfano costituzionale, promuovendo addirittura un referendum popolare. Franceschini si spinge oltre, per lui in questo caso saltano le prerogative al confronto.

Quando si parla di riforme condivise si evoca sempre lo spettro della bicamerale e le sue conseguenze, che da sinistra vengono ancora rinfacciate a D’Alema. Cosa si può imparare da quella esperienza?

In quell’occasione D’Alema sbagliò nel confidare totalmente nella volontà di Berlusconi di andare fino in fondo. L’attuale premier si tirò indietro quando si era vicini a un nuovo assetto costituzionale. I problemi che ci ritroviamo ancora oggi derivano dall’aver cambiato diversi elementi della costituzione materiale, pur mantenendo il sistema legislativo-istituzionale della Prima Repubblica.

Quanto pesa all’interno del Pd l’ala “dipietrista” di Franceschini e Veltroni, contrapposta a quella favorevole al dialogo di Bersani, D’Alema e Violante?

Il peso di questa corrente, che ha preso il nome di “Area democratica” è stato fissato, purtroppo, con le primarie: stiamo parlando del 30% del partito. La pressione maggiore è però esterna ed è quella di Repubblica, Di Pietro e il cosiddetto movimento dei girotondi.

Seguendo il suo ragionamento l’intesa è quindi molto più difficile di quanto si poteva immaginare…

Guardi, a queste pressioni i riformisti possono anche resistere, a meno che il centrodestra non faccia l’errore di chiedere l’impossibile. Se si parla di leggi ad personam, o di presidenzialismo non si può pretendere di andare d’accordo, se invece si discutono quelle riforme che in passato l’opposizione stessa aveva messo sul tavolo il patto si può raggiungere.

Occorre perciò un atteggiamento responsabile del governo…
 

 

A mio parere qualsiasi maggioranza sbaglia nel portare avanti riforme costituzionali senza un consenso ampio. Quando si toccano le regole fondanti della casa comune non si deve procedere in questo modo, anche perché si esaspera il clima guadagnandosi la bocciatura popolare tramite referendum, come avvenne nella legislatura 2001-2006.
Per quanto riguarda invece le leggi ordinarie la maggioranza è del tutto legittimata a procedere da sola. Le conseguenze in questo caso sono strettamente politiche. Una legge salva premier si espone alle critiche e può costare anche parecchi consensi.

L’opposizione deve invece affrancarsi da Di Pietro se vuole davvero l’accordo. Quante possibilità ci sono che il Partito Democratico rompa l’alleanza con Di Pietro?

Il problema del Pd non è quello di lasciare l’Idv, ma di riprendere in mano la partita, smettendo di farsi imporre l’agenda politica dall’esterno. Negli ultimi due anni Di Pietro ha dettato l’agenda del Pd. Bersani deve rompere l’incantesimo.

Ci sono le condizioni politiche perché questo avvenga?

Secondo me sì, il Pd non deve avere troppa paura della forza elettorale di Di Pietro, la sua crescita elettorale è finita, ha raggiunto il punto più alto della marea. Le uniche condizioni indispensabili sono nervi saldi e soprattutto un partito unito. Fino a quando Di Pietro sarà in grado di provocare fratture interne al Partito Democratico sarà sempre tutto molto difficile.