Il presidente Obama sembra intenzionato a inviare altri 30.000 o più soldati in Afghanistan e a “finire il lavoro”. È curioso che non vi sia nessuna requisitoria internazionale circa il suo atteggiamento morale verso l’Afghanistan, malgrado la sua opposizione alla guerra in Iraq sia stata uno dei fattori determinanti per la sua vittoria contro Hillary Clinton nella corsa alla candidatura presidenziale.



Certamente, non vi è stata nessuna analisi significativa sui risvolti morali della guerra in Afghanistan nei media inglesi e irlandesi, in parte perché è tuttora considerato inconcepibile sollevare critiche nei confronti di Obama. Nonostante la crescente opposizione al coinvolgimento inglese nella guerra, nessuno vuol aprire una discussione su Obama, mentre sono tutti felici di mettere sotto accusa George W. Bush e Tony Blair per l’Iraq.



Questo silenzio è forse anche dovuto alla preoccupazione dei media inglesi per l’apertura dell’Inchiesta Chilcot che, a seguito di un’intensa campagna mediatica, dedicherà i prossimi mesi a investigare sulle circostanze che hanno portato all’invasione dell’Iraq, quasi sette anni orsono, e l’argomento principale saranno le motivazioni che hanno spinto Blair a parteciparvi.

C’è qualcosa di strano in tutto questo. La guerra in Afghanistan e l’invasione dell’Iraq sono entrambe un prodotto del nuovo clima creato dall’attacco alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Eppure, è difficile sottrarsi all’impressione che le due guerre, nella mentalità culturale corrente, siano poste in due diverse prospettive morali.



Comunque, penso che si possano anticipare quelle che saranno, tra un anno o giù di lì, le conclusioni dell’inchiesta, e cioè che Tony Blair ha agito secondo il diritto internazionale in tutti i passaggi riguardanti l’invasione dell’Iraq. Vi saranno senza dubbio critiche per le informazioni incomplete e contraddittorie che, nel 2002-03, provenivano dall’Iraq sul potenziale militare di Saddam Hussein, ma la Commissione accerterà che Blair agì in buona fede. I media inglesi e irlandesi definiranno il tutto come “una mano di intonaco” sulla faccenda.

Mi sento sicuro di questa previsione perché è già accaduto con quattro precedenti commissioni di inchiesta governative sulla guerra in Iraq. L’Inchiesta Chilcot è un ulteriore tentativo di chiudere finalmente la questione, accertando i fatti indipendentemente da voci, ideologie o progetti nascosti.

Per sei anni, però, i media non hanno tenuto alcun conto dei risultati che non servivano all’obiettivo finale: “Blair criminale di guerra”. È perciò improbabile che l’Inchiesta Chilcot cambi qualcosa, perché se i suoi esiti saranno in linea con i pregiudizi dei media, il rapporto di Sir John Chilcot sarà acclamato, altrimenti sarà messo da parte e lui sarà etichettato come un altro tirapiedi dell’establishment.

Credo che ogni persona normale non ritenga Blair un criminale di guerra, ma piuttosto un uomo politico che ha sempre cercato di fare ciò che riteneva buono e giusto. I giornalisti hanno tuttavia già iniziato a rispolverare i loro dossier di accuse senza fondamento, cercando di rendere credibili nel largo pubblico le loro teorie sul complotto, e non a caso è riapparso alla ribalta Andrew Gilligan, un giornalista già al centro delle polemiche del 2003.

 

Gilligan accusò allora Blair di aver gonfiato i dati sulle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq per sostenere la necessità dell’invasione. Insieme ad altri, ripete ora le vecchie accuse: Blair, d’accordo con Bush, decise di rovesciare il regime iracheno almeno un anno prima dell’attacco e rifiutò di prendere in considerazione le fonti di intelligence secondo le quali Saddam non possedeva armi di distruzione di massa.

 

Tutto questo è sviante, perché ogni idea che il cambio di regime e il disarmo siano aspetti separati è falsa: il disarmo era l’obiettivo del cambiamento di regime e Blair, che non ha mai nascosto il suo desiderio di cacciare Saddam, ha sempre criticato l’ambiguità dei media inglesi di sinistra nei confronti di questa feroce dittatura.

 

Pochi mesi dopo essere entrato in carica, nel novembre del 1997, Blair ebbe un duro scontro sull’Iraq con il presidente francese Jacques Chirac, sostenendo un’azione militare a sostegno delle ispezioni dell’Onu, cui Chirac era invece contrario. A quel tempo, vi era un notevole accordo tra le fonti di intelligence, comprese quelle al servizio dell’Onu, sulla crescente disponibilità di armi di distruzione di massa da parte di Saddam.

 

Per tutto il 2002 Blair rimase in stretto contatto con Bush, cercando di convincerlo che vi erano forti probabilità di poter condurre un intervento sotto le bandiere dell’Onu e che altri leader europei si sarebbero uniti all’iniziativa. Bush si convinse di questa strategia, ma una parte del suo governo, segnatamente Donald Rumsfeld e Dick Cheney, era in favore in un intervento unilaterale.

 

Quando divenne evidente che né l’Onu né l’Unione Europea si sarebbero mosse, Blair si trovò di fronte a una difficile scelta: appoggiare gli americani in un’azione in cui credeva, o voltare le spalle a quello che considerava un pericolo concreto per il mondo. Così, di fronte alle barriere innalzate da altri governi europei, Blair offrì il sostegno della Gran Bretagna, anche se la spinta all’invasione venne dagli Stati Uniti, e lo fece avendo preso in considerazione le informazioni a sua disposizione.

 

Nei vari commenti sulla vicenda, non si menziona mai il fatto che Saddam avesse già usato armi chimiche in due occasioni, nella guerra con l’Iran e contro le “Guernica” del Kurdistan, e che vi fosse un consenso generalizzato sul continuo incremento del suo arsenale, soprattutto dal settembre del 2002.

 

Anche il dottor David Kelly, il presunto informatore dei servizi segreti che poi si suicidò sotto il fuoco incrociato di governo e giornalisti, all’inizio del 2003 era convinto che le armi fossero così ben nascoste che difficilmente si sarebbero potute trovare e che l’intervento militare fosse l’unico modo di trattare con Saddam, come riferito dalla sorella alla Commissione Hutton che investigava sulla sua morte.

 

Se Winston Churchill fosse stato sottoposto alla pressione investigativa e all’antagonismo mediatico di Tony Blair, questo articolo sarebbe scritto in tedesco. Il dibattito strumentale sull’Iraq scaturisce dall’irresponsabilità di una generazione di giornalisti che considera come proprio esclusivo compito cogliere in castagna i politici sulle discrepanze tra ciò che è stato detto e ciò che è realmente accaduto. È un gioco sciocco e pericoloso, ma è improbabile che ne possa essere svelata la sconsideratezza, perché questa monolitica cultura mediatica si propone come una questione di democrazia.

 

Mark Earls, nel suo libro Herd: How to Change Mass Behaviour by Harnessing Our True Nature (Il gregge: come cambiare i comportamenti di massa imbrigliando la nostra vera natura), offre l’opinione dell’esperto di marketing sul processo che porta il giornalismo a proporre storie completamente sbagliate, anche se superficialmente plausibili. E cita il caso inglese, del 1998, in cui venne indicato un legame tra autismo e il vaccino trivalente MRP (morbillo, rosolia e parotite).

 

Autorevoli giornalisti ignorarono i risultati scientifici a favore di una “bella storia”, causando un crollo nelle vaccinazioni e mettendo a rischio la salute di moltissimi bambini. Nonostante la ricerca originale, pubblicata sulla rivista specializzata Lancet, non parlasse di alcun legame tra vaccino e autismo, una miscela di cattivo giornalismo, di passaparola male informato e di chiacchiere tra genitori, blogger e tassisti ha portato a questa falsa storia, compensando con certezze emotive il completo distacco dalla realtà.

 

La nostra società pensa sempre più per titoli. Con la fiducia nelle autorità ormai quasi del tutto incrinata, teorie paranoiche si diffondono come virus e si trasformano in diffuse convinzioni comuni del tutto indipendenti dai fatti reali. Perché, con queste modalità, un’interpretazione dei fatti guadagni un diffuso consenso, serve solo che sia estremamente non plausibile.

 

“Blair criminale di guerra” è una storia di questo tipo e, con la nostra società che sta diventando tutta un enorme tassì, a nessun fatto reale sarà mai permessa un’emergenza simile.