Per la prima volta dal 2004 i disoccupati in Italia superano la soglia dei 2 milioni. Questo l’ultimo dato di una crisi economica che da tempo viene analizzata e spiegata da molti commentatori. Abbiamo chiesto il proprio punto di vista sulla crisi dell’economia e della sinistra in Europa a Fausto Bertinotti, ex leader di Rifondazione Comunista ed ex Presidente della Camera.
Presidente, in un’intervista a ilsussidiario.net, Violante sottolineava le difficoltà della sinistra e il suo spiazzamento davanti alla crisi economica. Cosa ne pensa?
La sinistra non solo si è ritrovata spiazzata, si è rivelata addirittura inesistente. Non parlo indifferenziatamente di sinistra, ma della drammatica crisi della sinistra in Europa. Nel mondo la situazione è diversa, in America Latina assistiamo al successo di grandi leader, lo stesso accade in parte dell’Asia, e anche l’esperienza di Obama, senza poterla catalogare precisamente come “di sinistra” secondo il lessico europeo, è da guardare con grande interesse. Detto questo, la crisi avrebbe dovuto restituire la parola alla sinistra perché la sua natura è sistemica e strutturale. È la crisi di un certo tipo di capitalismo, quello finanziario globalizzato che ha realizzato la sua ascesa nell’ultimo quarto di secolo.
Quali sono però le ragioni di questo spiazzamento?
Il combinato disposto della rivoluzione capitalistica restauratrice (la globalizzazione è stata infatti una grande innovazione e una grande restaurazione) e il crollo dei regimi dell’est (un riferimento, seppur criticamente vissuto, per tanta parte del mondo) ha determinato uno spiazzamento totale della sinistra.
I governi, succedutisi nella linea della Terza Via, hanno fallito anche perché hanno assunto essenzialmente una lettura della globalizzazione sintonica con quella liberale. D’altra parte abbiamo assistito alla sconfitta della sinistra radicale. Per queste ragioni ripeto spesso che avevamo due sinistre, non ne abbiamo nessuna e bisogna ricostruirne una.
Come?
La sinistra non ha saputo dare delle risposte perché ha abbandonato il proprio armamentario: l’intervento pubblico in economia, la spesa pubblica in disavanzo, la politiche di indirizzo. Mancano le fondamenta e bisogna ricostruirle.
Lei ha parlato di una crisi sistemica del capitalismo finanziario globalizzato. La crisi del modello capitalistico-finanziario non ha messo però in luce una più profonda crisi antropologica, che ha generato modelli astratti, lontani dall’economia reale?
Non sono convinto, cos’è l’economia reale se non questa fusione tra capitalismo finanziario e capitalismo produttivo, che è diventata inestricabile relazione tra rendita e profitto? Questa connessione nel continente Cin-India fa della produzione di beni materiali il motore di una locomotiva a basso costo del lavoro e a bassissimi diritti.
A mio avviso il problema è il modello, non lo scontro tra un’economia dell’effimero e un’economia del reale. Il capitale finanziario si è impossessato del capitale produttivo e ha dato luogo a un’operazione gigantesca di redistribuzione del potere tra le classi a favore delle classi dominanti.
Se il problema è il modello economico e sociale, quale avrebbe dovuto proporre la sinistra?
Quello della “grande riforma”: la lotta alla disuguaglianza, all’ingiustizia sociale a partire dal tema del lavoro e della disoccupazione, sia per difendere l’occupazione che già c’è, sia per riproporre la grande questione del pieno impiego e del salario garantito. In secondo luogo la conversione verso un’economia ecologista in grado di rimodellare il rapporto tra produzione e consumo (“green economy”, o, facendo riferimento all’esperienza francese, “ecologia della trasformazione”). La disoccupazione crescente (siamo ormai al 10%) a cui stiamo assistendo durante la ripresa sta dando luogo alla distribuzione del reddito a discapito di nuova generazione a “zero lavoro”. Sono temi che affiorano nella cultura, ma che poi rimangono colpevolmente fuori dalla politica.
Un esempio?
Penso al reddito di base proposto recentemente in Italia da Luciano Gallino, o al fatto che Sarkozy abbia istituito una commissione di studio sui problemi dello sviluppo, presieduta da Stiglitz e coordinata da Fitoussi. Dopo tre mesi di lavoro sono arrivati alla conclusione che assumere come guida dell’economia il Pil è un errore grave. Occorrerebbe una rivoluzione culturale, questi sono i temi che la sinistra dovrebbe affrontare.
Davanti alla crisi sembrano emergere due tentativi di risposta opposti, ma fallimentari, da un lato l’individualismo, dall’altro l’illusione che moltiplicando le regole si possano evitare nuovi conflitti. È d’accordo?
Entrambi gli approcci sono destinati a fallire. Questo individualismo è consumistico e porta alla guerra di tutti contro tutti, a partire dagli esclusi, che non hanno ragioni per accettare questa esclusione, basti pensare alle banlieues parigine.
D’altra parte la soluzione delle pure regole è un illusione, se non cambia il modello. Gli ultimi 25 anni ci insegnano che le regole sono state fagocitate: la regola mercatoria ha preso il posto del diritto commerciale e del diritto internazionale, gli esecutivi hanno preso il posto del Parlamento. Come ci ha insegnato in un’altra fase il New Deal, c’è un nesso tra la regola e le politiche che vuoi perseguire.
Passando alla politica italiana: si continua a discutere del difficile rapporto tra politica e giustizia. È possibile un riequilibrio dei poteri e la riaffermazione del primato della politica?
È giunto il momento di fare un bilancio. Come mai la revisione della Costituzione perseguita da 20 anni è sempre fallita? Se siamo in uno stato che tutti denunciamo come inaccettabile non sarà fallita la Seconda Repubblica? E se, come io penso, è davvero fallita da dove ricominciamo? La bozza Violante era, ed è ancora adesso, un terreno interessante di discussione, alla condizione che non si creda che il Paese possa uscire da questa situazione con un’operazione di riorganizzazione istituzionale. Senza una grande politica, senza una visione di società, non si risolve il rapporto politica-giustizia, che è malato fin dalla nascita della Repubblica.
Quali sono le cause di questo squilibrio tra poteri?
Dopo un lungo ciclo nel quale la magistratura è stata sostanzialmente succube dell’esecutivo, tanto che: i mafiosi non venivano condannati, i criminali non finivano in galera e, ad esempio, la Montedison poteva distillare omicidi bianchi per uso reiterato del Pvc… la magistratura ha acquistato un certo protagonismo. Alcuni suoi strati sono stati attraversati dall’autoattribuzione di un compito di risanamento del Paese, che invece toccava alla politica. Questo è avvenuto durante la crisi della politica, Tangentopoli, e poggiava su un elemento forte, la corruzione e l’illegalità a livelli impressionanti.
Come si esce da questa situazione?
Bisognerebbe in qualche modo ritrovare uno spirito costituente e ripartire dalle proposte di buon senso, come quelle un garantista come Giuliano Pisapia. La situazione però mi sembra più complesso per i problemi irrisolti del Presidente del Consiglio (come il conflitto di interessi) che sta portando il paese verso una democrazia autoritaria. Se si continua così il terreno diverrà ancora più torbido e diventa difficile discernere il grano dal loglio.
(Carlo Melato)