Ora il tormentone – tra l’altro vecchio – sarà, per un po’, quello delle riforme condivise. Vedremo a cosa porterà: le premesse non sono tra le migliori. Si tratta, come chi legge sa bene, in particolare, delle riforme istituzionali (elezione e poteri del premier, Senato delle regioni, diminuzione del numero dei parlamentari) e della riforma della giustizia della cui necessità e persino inutile ribadire.



Perché condivise? Diciamo così: un po’ potè la statuetta del Duomo di Milano scagliata contro il premier. Di Pietro escluso (e Bindi poi ravveduta) quel gesto e il clima ad esso precedente hanno segnato per molti la necessità di uno spartiacque tra il prima e il dopo. La visita del segretario del Pd a Berlusconi al San Raffaele va in questa direzione. E diciamola tutta: probabilmente va in questa direzione anche la volontà di Bersani (con D’Alema che spinge a favore ed anzi ispira) di fare delle riforme insieme a Berlusconi e di farle per modernizzare il Paese.



Ma tutto il resto del centrosinistra? Di Pietro? Franceschini? Gli ex popolari? La Bindi, sia pure ravveduta? E il centrodestra? Fini cosa pensa sulle riforme? Casini, forse, in questa fase, è quello che è ben disposto, a partire dalla giustizia e, forse, anche su quelle istituzionali.
Comunque sia, in discesa non ci siamo e in pianura c’è poco. La salita domina, come nelle tappe di montagna del Giro d’Italia. C’è chi addirittura suona il campanello dell’ultimo giro. O si fanno ora o non si fanno più. Questo non deve impressionare: succede ogni volta che si paventa l’ipotesi di fare le riforme in Italia.



Ma è proprio così? O condivise o niente? O condivise o non dotate di quel significato “costituente” che avrebbero se fatte insieme sulla scia della Costituzione stessa? Insomma: o condivise o senza valore? Non è assolutamente questo il punto di partenza. Ciò che conta è il contenuto delle riforme. Perché, è anche ovvio ricordarlo, di riformette – sia pure condivise – l’Italia non ha bisogno. Meglio così, almeno ci sarà risparmiato un tempo infinito di discorsi, dibattiti, prese di posizione e cose del genere, generalmente stucchevoli.

E allora? E allora Berlusconi verifichi  – attraverso Letta (Gianni) può farlo – se c’è spazio o no, fino a dove ci si può spingere, se Bersani-D’Alema possono contare sulla forza parlamentare necessaria, e poi, ma solo dopo, si decida e si dica con chiarezza se si possa (o non si possa) intraprendere il cammino delle riforme e perché sì (o no).

E se non si potesse farle in modo condiviso? La maggioranza ha il dovere di procedere perché l’alternativa non può essere: insieme al ribasso o nulla o, peggio ancora, comunque insieme o nulla. Contano ancora qualcosa quella marea di voti che la maggioranza ha preso alle elezioni per fare anche queste riforme? O no? O per fare le riforme ci vogliono altre elezioni? Quelle di un’assemblea costituente, cioè i voti delle politiche non sono sufficienti, non hanno sufficiente peso politico per fare le riforme istituzionali a maggioranza parlamentare, sia pure qualificata? Se qualcuno lo pensa lo dica. Sarebbe tutto più chiaro. Intanto, però, nel frattempo che si dibatte di questo e di altro qualche riforma che vada nel senso dell’efficienza delle istituzioni e anche della magistratura sarà il caso di metterla in campo, perché alla fine la bussola che orienta l’azione politica dovrebbe essere costituita non da ciò che si riesce a fare, ma da ciò di cui ha bisogno il Paese.